Attacco uguale «catastrofe»

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Un attacco militare all’Iran da parte dei paesi occidentali (e à§a va sans dire Israele) sarebbe «una catastrofe» e porterebbe al calor bianco lo scontro fra sciiti e sunniti (che sta già  destabilizzando non solo piccoli paesi come il Bahrain ma anche grandi paesi come l’Iraq). Lo ha ricordato ieri il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, nel corso di una conferenza stampa a Mosca. «Sulle possibilità  che questa catastrofe si verifichi o no dovreste chiedere a chi ha parlato ripetutamente della questione», ha affermato Lavrov rispondendo alla domanda se gli Usa e i loro alleati (quelli israeliano e quelli europei) attacheranno la Repubblica islamica. «Non ho dubbi che sarebbe come versare benzina su un fuoco che sta covando sotto la cenere, il fuoco nascosto dello scontro tra sunniti e sciiti» e che innascherebbe con ogni probabilità  una «reazione a catena» che poi sarebbe difficile controllare.
In Israele, che gli Usa di Obama (già  impegnato nella campagna elettorale per le presidenziali di novembre) cercano di tenere a freno, il ministro della difesa Ehud Barak ha assicurato ieri che gli israeliani sono ancora «molto lontani» dalla decisione finale di attaccare i siti nucleari iraniani come fecero nell’81 contro il sito nucleare iracheno di Osirak. Ma, a parte le preoccupazioni elettorali di Obama, le dichiarazioni del falco Barak sono dettate dall’imminenza dell’arrivo in Israele del del capo delle forze armate Usa, il generale Martin Dempsey.
Fra Washington e Tehran non si placa l’escalation di minacce verbali. L’ambasciatore iraniano a Mosca, Mahmoud Reza Sajjadi, ha ribadito ieri che l’Iran è pronto a chiudere lo stretto di Hormuz, lo strategico passaggio (petrolifero) fra il golfo Persico e l’oceano Indiano per cui passa fra il 30 e il 40% del greggio, nel caso in cui il paese «dovesse sentir minacciata la sua sicurezza», ovvero nel caso di un attacco contro gli impianti nucleari iraniani. Immediata e scontata la risposta americana: il segretario alla difesa Leon Panetta ha dichiarato che gli Usa sono «totalmente pronti» a far fronte alle minacce iraniane di chiudere lo stretto di Hormuz. Ossia, in soldoni, la chiusura di Hromuz sarebbe come una dichiarazione di guerra.
La prospettiva di un (nuovo) conflitto e presumibilmente ancor peggiore di quelli (inconclusi) in Iraq e Afghanistan, inquieta molto e molti. Non solo l’Italia di Monti che ieri a Londra ha detto che «siamo pronti a partecipare a una decisione europea su un possibile embargo petrolifero» (annuncia- to come prossimo passo della Ue) contro l’Iran (da cui la Ue importa quasi il 20% del suo petrolio e l’Italia il 10%).
Per scongiurare il pericolo è attivissima la Turchia, divenuta un protagonista assoluto sullo scacchiere mediorientale. Ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente della repubblica Abdullah Gul hanno incontrato il ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi, in visita ad Ankara. Il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu è impegnato ad affermare un suo ruolo di mediazione sul nodo del programma nucleare iraniano. Dopo il nulla di fatto dei colloqui in formato 5+1 (Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) condotti a Istanbul nel gennaio 2010, Davutoglu ha detto che una nuova tornata di incontri si terrà  in territorio turco. Con l’Iran i rapporti della Turchia (pur se sunnita e legata all’occidente) sono buoni e sostanziati da una dipendenza turca dalle fonti energetiche iraniane. La partita continua.


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A uno sguardo più attento, però, il quadro appare assai sfumato. 

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