Aragon scrive a Breton un’amicizia surrealista

by Editore | 9 Gennaio 2012 1:55

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PARIGI – Non hai nulla da temere, per il momento, perché per ora nessuno mi è più caro di te, e il prezzo di questa amicizia è la drammatica certezza è che un giorno io e te ci scontreremo a morte. « È in questi termini che il 20 aprile 1919 Louis Aragon scrive all’amico André Breton, l’infaticabile animatore del movimento surrealista con cui per una dozzina d’anni condividerà  battaglie letterarie e politiche, in nome di un disperato bisogno di libertà  e di radicale rinnovamento. Rimaste finora inedite, le centosettanta lettere scritte da Aragon a Breton tra il 1918 e 1931 giungono in libreria raccolte in un volume – Lettres à  André Breton (Gallimard, pagg. 469, euro 23,90) – che, oltre ad essere una testimonianza preziosissima su un periodo ricco d’intense sperimentazioni, fa luce sull’evoluzione politico-letteraria dell’autore del Paesano di Parigi e sulle sue non sempre facili relazioni con l’anticonformismo di dada e del surrealismo.
I due scrittori, entrambi studenti di medicina, si conobbero nel 1917 a Parigi. Aragon, che aveva vent’anni ed era di un anno e mezzo più giovane dell’amico, rimase subito affascinato dalla forte personalità  di quel poeta desideroso di liberarsi da ogni tradizione: «la sola persona al mondo che io abbia mai incontrato con un desiderio di qualcosa d’altro da ciò che è». Il loro sodalizio, fatto d’interminabili discussioni e lunghe passeggiate per le vie della capitale, contribuì ad avviare uno dei capitoli più importanti della letteratura europea d’inizio secolo. Insieme, progettano riviste, frequentano i pittori e criticano il mondo letterario, proseguendo epistolarmente il loro dialogo tutte le volte che si ritrovavano separati dagli eventi. Come ad esempio, nel 1918, quando Aragon parte come infermiere volontario per le trincee della prima guerra mondiale, dove rischia più volte la vita e si conquista la croce di ferro.
Nelle molte lettere scritte dal fronte, egli però non parla quasi mai di quella terribile esperienza, limitandosi a poche laconiche indicazioni: «Il cannone non cessa di martellare. All’orizzonte si sente un rimbombo continuo. Siamo stati bombardati tutta la notte dalle bombe e dai gas. «Con l’autore di Nadja, Aragon preferisce parlare di poesia e letteratura, sottolineando l’importanza dell’opera di Rimbaud e Lautréamont, ma dicendosi deluso da Apollinaire, del quale commenta la morte in questi termini: «Non aveva più niente da dire, stava cominciando ad andare a male». E quando sulla scena esplode l’irruenza iconoclasta di Tzara e del dadaismo, egli si riconosce subito in quella voglia di far piazza pulita della tradizione, anche se considera Dada «meno scandaloso di quanto sembri». Per lui, Picabia «è lo scandalo facile alla portata di tutti». Paradossalmente, preferisce l’originalità  raffinata di Cocteau e perfino il coraggio di Gide, «che ha inventato tutto dai Nutrimenti ai Sotterranei». In quegli anni, Aragon – che non nasconde la gelosia nei confronti di Soupault – è alla ricerca della propria strada, convinto che occorra «liberarsi dallo stile» e «uccidere il contemporaneo», allontanandosi da ogni modello letterario. «Non vedrai più una sola mia poesia fino a quando non mi sarò liberato di tutti gli altri e di Rimbaud», scrive a Breton, spiegando poi l’idea dei collage poetici ispirati dai quadri di Braque: «Non sarebbe interessante, mi sono detto, incollare sulla carta le diverse verità  psichiche e costruire attorno ad esse la poesia che sappia esprimere il vero rapporto esistente tra loro?» 
In queste fitte pagine, dove non mancano le poesie, i calligrammi, i disegni e i giochi di parole, l’autore di Bianca o l’oblio evoca incontri, passeggiate e desideri nascosti («Guardo le donne come un orco»), come pure discute le collaborazioni a Littérature, Dada o La Revolution surréaliste, le riviste che nel giro di qualche anno scardinarono il mondo delle lettere francesi. Nelle lettere, naturalmente, si ritrova anche l’eco delle innumerevoli scissioni e defezioni che hanno punteggiato la storia dell’avventura surrealista, compresa quella traumatica che, all’inizio degli anni Trenta, separò irrimediabilmente i due amici scrittori, ritrovatisi all’improvviso su posizioni politiche inconciliabili. Durante un viaggio in Unione Sovietica, Aragon, che non voleva «rassegnarsi a considerare la rivoluzione come compiuta», difese infatti «l’idea della dittatura del proletariato sulla letteratura, nella quale, sotto maschere diverse, rinascono continuamente le tendenze borghesi». Una strada su cui però non lo seguì l’autore del Manifesto del Surrealismo, che oltretutto criticò apertamente il suo avvicinamento al Partito Comunista, considerandolo un vero e proprio tradimento dello spirito surrealista. Il risultato fu una frattura insanabile, che allontanò per sempre Aragon da Breton, «un amico più amico di tutti i colori dell’arcobaleno». Di quell’amicizia, le lettere oggi pubblicate sono la migliore delle testimonianze.

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