Anche il mercato ha le sue virtù L’ultima scoperta della sinistra

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Si potrebbe dire che in tutto ciò non c’è nulla di nuovo. La maggior parte della cultura del secolo scorso è stata anticapitalistica. È stata tale in primo luogo nelle correnti marxiste, profondamente radicate in alcuni Paesi europei. In una pagina dei Quaderni del carcere, che ancora oggi colpisce per la sua radicalità , Gramsci individuava il vizio fatale del capitalismo avanzato nell’azionariato svincolato dalla funzione imprenditoriale, sicché, scriveva, non esistono più «imprese sane»: «Tutte le imprese sono divenute malsane. È la stessa “grandezza” del mercato azionario che ha creato la malsania: la massa dei portatori di azioni è così grande che ormai essa ubbidisce alle leggi di  folla” (panico, ecc.) e la speculazione è diventata una necessità  tecnica, più importante del lavoro degli ingegneri e degli operai». Ma la cultura del Novecento è stata larghissimamente anticapitalistica anche in filoni importanti del pensiero sociologico: basti pensare alla Scuola di Francoforte e alla sua «teoria critica», secondo la quale la società  industriale avanzata era dominata dal cosiddetto «apparato» (tecnostrutture più calcolo economico), che pianificava e violentava la vita in ogni suo aspetto, che faceva tutt’uno con la mercificazione di tutti i prodotti dell’attività  umana (compresi quelli culturali), che trasformava gli individui in rotelle inerti di un enorme ingranaggio. Del resto, non a caso la Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse) ebbe grandissima diffusione nei movimenti contestatori del Sessantotto, che assorbirono la sua ispirazione anti-industrialistica e anticapitalistica. Questo avvenne anche da noi, senza che nessuno si chiedesse che cosa sarebbe stata l’Italia senza il miracolo economico, cioè senza uno slancio imprenditoriale e industriale (capitalistico) che fece del nostro un Paese non più prevalentemente agrario, bensì prevalentemente industriale, e pose le premesse perché diventassimo una delle principali potenze industriali del mondo.
Certo, allora molte menti erano dominate dal sogno di una società  comunista, non più anarchica bensì pianificata, non più atomistica ed egoistica, bensì compatta e solidale. E il modello al quale molti giovani (e meno giovani) guardavano era la Cina di Mao. Ma da tempo quel sogno non ha più corso: la storia ha mostrato il suo carattere illusorio e tragico a un tempo. E tuttavia oggi viene riproposta da certi settori politici e intellettuali la condanna del capitalismo. Ma per andare dove? A questa domanda ha risposto con grande onestà  intellettuale uno storico inglese (che ha lavorato anche in Italia, dove è ben noto): Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm, e come lui animato da ideali socialisti. «Non c’è dubbio — ha dichiarato in una intervista a l’Unità  (del 21 gennaio) — che siamo di fronte alla crisi del capitalismo occidentale, sia nella sua versione americana che in quella europea … E un pensiero critico deve essere all’altezza di questa crisi». Senonché, che cosa dice il «pensiero critico»? Dice, afferma Sassoon, che «un sistema economico-sociale ha veramente vinto non quando tutto va bene, bensì quando è in crisi e tutti quanti, da destra a sinistra passando per il centro, cercano in ogni modo di salvarlo. Certo, su come salvarlo esistono differenze, ma nessuna forza significativa porta avanti un’alternativa di sistema». Negli anni Trenta, dice ancora Sassoon, travagliati dalla crisi apertasi nel 1929, esisteva un punto di riferimento «altro» sul piano sistemico: il comunismo e l’URSS. «Oggi abbiamo invece lo spettacolo assolutamente sorprendente — che 20-30 anni fa nessuno si sarebbe sognato di prevedere — dei dirigenti del Partito comunista della Repubblica popolare cinese che fanno la predica ai dirigenti americani perché costoro non si preoccupano abbastanza delle sorti del capitalismo mondiale. Nella stessa direzione va il cancelliere dello Scacchiere britannico quando offre la City, e dunque il mondo finanziario britannico, come principale punto di riferimento per una avanzata globale del capitalismo cinese». Dunque, conclude giustamente Sassoon (e la sua conclusione dispiacerà  a molti), quello che oggi viene messo in discussione non è il capitalismo, bensì un liberismo senza regole. Cioè, poi, un mercato senza controlli dello Stato, che deve garantire che non vengano infrante o eluse (come purtroppo è avvenuto) certe leggi e certe regole per un corretto funzionamento del mercato medesimo. Di qui la funzione ineliminabile della politica, che nessun liberale si è mai sognato di sottovalutare, o di sacrificare a un preteso funzionamento «puro» del mercato.


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