by Editore | 16 Gennaio 2012 8:13
Da tempo diceva di essere stanco, sfinito, ma sembrava più il vezzo di un vecchio Gianburrasca che a 85 anni (era nato il 19 settembre 1926) riusciva ancora a stupire con il suo spirito e il suo acume. Certo, i problemi cardiaci di cui soffriva, la morte della moglie nel 2007, cinque anni dopo il suicidio del compagno di scrittura e amico di una vita, Franco Lucentini, volato dal quarto piano del suo appartamento torinese, troppo stanco di una malattia che lo costringeva all’immobilità , lo avevano provato molto. Carlo Fruttero se n’è andato ieri nella sua casa di Roccamare, a Castiglione della Pescaia, dove da qualche anno si era ritirato accudito dalla figlia Carlotta e dalla sua famiglia (l’altra figlia, Federica, vive a Parigi). Con loro aveva anche giocato a scrivere il suo necrologio («meglio tenersi sullo stringato, costa meno»), come aveva raccontato nella lista compilata per Vieni via con me, il programma di Fazio e Saviano: «Passati gli ottant’anni nessuno osa più scrivere di te “il vecchio Fruttero”, ancora meno “l’anziano Fruttero”. Così si passa a un sinonimo lusinghiero “il grandissimo Fruttero”, che qui saluta e lascia la scena col suo più bel sorriso».
Dalla pineta di Roccamare osservava il mondo che lo circondava con lucidità e lo reinterpretava con la sua ironia, sfogliava i quotidiani locali alla ricerca di notizie curiose che lo deliziavano più dei dibattiti e delle polemiche culturali, rileggeva i classici (la grande letteratura francese, rigorosamente in lingua, ma anche Manzoni, Leopardi), guardava in tv qualche poliziesco (i Ris e Il commissario Florent, un telefilm «un pelo sopra la decenza» che aveva il merito di rammentargli la «douce France» che tanto amava, come ricorda nelle «memorie retribuite» uscite lo scorso anno da Mondadori e maliziosamente intitolate Mutandine di chiffon).
Qui riceveva la visita quotidiana dell’amico Pietro Citati, sempre con l’immancabile Gauloise tra le dita. «Se smetto di fumare smetto di scrivere e quindi smetto di vivere» diceva. E infatti fino all’anno scorso aveva continuato a scrivere, o meglio a dettare a Carlotta i suoi lampi creativi, come una filastrocca per bambini ispirata alla Genesi(edita da Gallucci) e composta «sotto l’Alto patronato dell’Onnipotente» dove immagina un Dio che dopo essersi dedicato all’essenziale scopre che al mondo mancano ancora «parecchie cosette», tra cui giungle, liquirizia, marijuana e quindi provvede a crearle. O un almanacco essenziale dell’Italia unita a quattro mani con Massimo Gramellini per ripercorrere le tappe cruciali del nostro Paese (La patria bene o male, Mondadori). Ma del romanzo ispirato agli arazzi di Cluny che da qualche tempo gli solleticava la mente, era riuscito ad abbozzare soltanto qualche decina di pagine.
Nel 2007, con Donne informate sui fatti, il secondo libro senza Lucentini (il primo era stato Visibilità zero, sulle tragicomiche disavventure di un onorevole), dove un delitto è raccontato da otto voci femminili, era entrato nella cinquina del Campiello. Alla serata di gala della Fenice (dove le sue espadrilles gialle, tra smoking e abiti lunghi, non erano passate inosservate), il pubblico lo aveva omaggiato con una standing ovation, ma la giuria popolare lo aveva relegato all’ultimo posto della cinquina guidata da Mariolina Venezia, decisione che aveva suscitato qualche polemica che lo stesso Fruttero aveva alimentato con un certo divertimento. Un torto, a detta di molti (anche se lui aveva chiosato «meglio ultimo che secondo o terzo»), riparato nel 2010 con il riconoscimento alla carriera.
Lettore colto e raffinato fin dalla giovinezza, aveva conosciuto Lucentini nel ’52 in un bistrot di Parigi, dove viveva da qualche anno facendo i lavori piu disparati. Divennero subito amicissimi, uniti, come amavano dire, dai «comuni disinteressi» e quando tornarono in Italia si trovarono entrambi all’Einaudi. Per la casa editrice di via Biancamano Fruttero corresse, tra le altre cose, la prima edizione del Diario di Anna Frank, oltre a traduzioni di autori come Beckett e Salinger. Con Lucentini selezionò un’antologia di racconti di fantascienza, Le meraviglie del possibile che ebbe un grandissimo successo. Così quando nel ’62 Mondadori gli offrì la direzione della collana Urania Fruttero accettò, suscitando lo sdegno di Giulio Einaudi e di Italo Calvino che di Fruttero era compagno di scrivania allo Struzzo e che a lungo aveva tentato senza successo di attrarlo nella «chiesa comunista». Due anni dopo fu affiancato da Lucentini e insieme guidarono la collana di fantascienza per oltre un ventennio.
Nel frattempo la premiata ditta F&L sforna articoli (tra cui quello sulla Stampa di Arrigo Levi che provocò un incidente diplomatico con Gheddafi nel ’76, ai tempi dell’accordo tra la Fiat e la Banca di Libia), traduzioni, scritti d’occasione oltre a una ventina di titoli, da L’idraulico non verrà , dove sono insieme ma distinti, a La donna della Domenica, giallo del 1972 con una Torino austera e inquieta che diventerà un vero e proprio bestseller anche grazie al film di Luigi Comencini con Marcello Mastroianni nei panni del commissario Santamaria. Poi Il palio delle contrade morte, A che punto è la notte, L’amante senza fissa dimora, La prevalenza del cretino.
Un’azienda ben rodata, la loro, due «dottor Watson senza Sherlock Holmes», dove ognuno aveva le sue competenze e le sue caratteristiche, la cui opera non poteva aspirare al rango di Letteratura come lo stesso Fruttero spiegava: «Eravamo in due e per la critica è impossibile scrivere a quattro mani. In due al massimo si può essere degli astuti mestieranti che lavorano a scopo di lucro, l’ispirazione dev’essere unica». Ma lo diceva senza risentimento perché come scrittore amava praticare l’umiltà : «D’altronde — ci aveva detto in una delle ultime interviste — dopo I promessi sposi che cos’altro si può scrivere sull’animo umano?».
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