Voli d’uccello e occhi di talpa, vedute urbane in divenire

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Dal 1987 Cesare de Seta visiona secondo criteri scientifici atlanti, mappe, cartografie di città  europee, esaminando gli originali e le loro riproduzioni incise, comparando le tecniche topografiche di restituzioni dal vero e cogliendo dove si è posato l’occhio dell’osservatore, o quali espedienti ha impiegato per far coincidere il suo sguardo con la migliore resa prospettica. Negli anni l’interesse dello storico napoletano si è esteso, oltre che alle stampe e ai disegni dal XVI al XVIII secolo, anche alle precedenti descrizioni di città , quelle per intenderci dipinte e affrescate nelle sale dei palazzi e delle ville a partire dalla metà  del Quattrocento. 
La catalogazione di questo vastissimo patrimonio iconografico rientra nel progetto, diretto dallo stesso de Seta, dell’Atlas de la ville européenne, sostenuto dalla Maison des Sciences de l’Homme di Parigi. E valida sintesi di questo ventennale lavoro è ora il saggio Ritratti di città  (Einaudi saggi, pp. 376, euro 38) che – come riferisce nella premessa l’autore – non sarebbe nato senza il contributo iniziale di diversi studiosi europei ma anche di coloro che dal 2000 partecipano al Centro interdisciplinare sull’iconografia della città  europea che De Seta ha fondato presso l’Università  Federico II di Napoli. 
Strutturato secondo un ordine cronologico e illustrato con generosità  e cura nonostante le difficoltà  che sempre incontra la riproduzione cartografica, il saggio già  dalle prime pagine, lì dove si affronta la questione della periodizzazione del «ritratto», ci fa comprendere come la rappresentazione dello spazio urbano, se da un lato trova un punto di svolta nell’invenzione brunelleschiana della prospettiva, dall’altro coincide con un rinnovato interesse per la geografia tolemaica alla base dei primi rilievi in pianta dei catasti cittadini. 
La scienza ottica medievale migra nella cultura umanistica rinascimentale in un lento e complesso percorso teso a conciliare l’aspirazione intellettuale alla conoscenza con la pluralità  di episodi e frammenti di cui si compone la città . Se la Descriptio urbis Romae di Leon Battista Alberti è l’esempio eloquente dei limiti del mondo quattrocentesco alle prese con la resa quanto più «somigliante» di un luogo sparso di rovine e monumenti, la Veduta di Roma di Francesco Rosselli, come il «ritratto» di Napoli nella Tavola Strozzi o la veduta di Firenze della Catena di Lucantonio degli Uberti già  superano l’approssimazione albertiana fatta di linee di contorno (mura) e emergenze (monumenti) verso un ritratto più verosimigliante per qualità  di dettaglio e resa prospettica – anticipazione, come scrive De Seta, «del vedutismo urbano nella pittura europea». 
La prospettiva, quale nuovo codice visivo, alla pari del testo letterario, celebra le «meraviglie» di stati e città : organizza razionalmente il mondo esaltandone al tempo stesso i suoi significati simbolici. Le tipologie dell’iconografia urbana, che si impongono tutte nell’età  dell’Umanesimo, sono profili, vedute dall’alto o in prospettiva (secondo le diverse altezze del punto di vista), assonometrie e piante. Il loro insieme compone la variegata tassonomia a disposizione del vedutista-topografo. Dalla loro scelta o combinazione lo spazio urbano e il territorio saranno da lui rappresentati affinché la magnificentia coincida con la più accurata riproduzione del dettaglio edilizio e architettonico. Tra le eccellenti prove di ritratto di città  è quella di Venezia di Jacopo de’ Barbari: lì «al volo dell’uccello si aggiunge l’occhio della talpa». La sua Venetie MD non solo rivoluziona la conoscenza della città  lagunare per l’estrema cura del particolare topografico, ma essendo incisa su sei legni di pero, quindi riproducibile, si qualifica come l’originale impresa di un privato per il libero mercato e non più per un singolo regnante. 
È indubbio che nell’iconografia urbana dei secoli XV e XVI la totalità  del rappresentato non corrisponda all’oggettività  del reale; infatti, le tecniche di rilievo e di proiezione cartografica sono ancora inesatte. Tuttavia, pur se ogni ritratto è incoerente, poiché si compone di collages di immagini parziali, il risultato finale, anche con le sue naturali distorsioni, è un documento di eccezionale valore per comprendere sia le profonde trasformazioni del paesaggio europeo, sia la condizione dell’artista-intellettuale umanista, autonomo nella sua elaborazione critica del mondo, tra immanenza della storia e razionalità  della scienza. Così se da un lato con rilievi topografici sempre più precisi si restituiscono piante meglio rispondenti alle finalità  di difesa militare e di organizzazione produttiva delle città , dall’altro la «dolce prospettiva» si impone nel ritratto di città  oltre i confini dell’Europa, come attesta la veduta di Costantinopoli del danese Melchior Lorck che alla metà  del XVI secolo rappresenta, come mai prima era accaduto, la capitale turca con le sue architetture sultaniali. 
Un capitolo del saggio di de Seta è dedicato alla «città  dipinta», affrescata o istoriata su tavola, che celebra la «fisionomia» dei luoghi conquistati e posseduti da nobili e monarchi. È esaustiva la sintesi che lo storico napoletano dà , quando tratta della «geografia moralizzata» nella Galleria delle Carte geografiche in Vaticano o dell’«atlante urbano» che Cosimo I fece dipingere in Palazzo Vecchio da Giorgio Vasari e Giovanni Stradano. 
Sarà  però solo la nascita del «libro di città » ad avviare quel percorso della cultura visiva che nel Seicento «sfida l’egemonia letteraria e erudita dell’Umanesimo». Si tratta delle xilografie «stereotipate» di Michael Wolgemut e Wilhelm Pleydenwurff nel Liber chronicarum di Hartmann Schedel oppure delle vedute nel Cosmographia universalis di Sebastian Mà¼nster: l’operosità  tedesca e poi fiamminga nell’editare atlanti è senza paragoni anche se non mancano in Italia poligrafi di altissima qualità  come il bolognese Leandro Alberti o Antoine Lafréry operante a Roma. 
Con alle spalle le limitazioni tecniche e scientifiche quattro e cinquecentesche le rappresentazioni dei due secoli successivi, pur con una migliore «esattezza e coerenza figurativa lasciano cadere – come ha scritto Leonardo Benevolo – una serie di valori singolari». Tra i tanti vi è quello riguardante la perdita della «confidenza in un ordine paesistico che si ritiene ancora modificabile, almeno in parte, secondo i desideri umani». Solo città  e territori «definitivamente assestati» mossero Carlo V e Filippo II a intraprendere l’impegnativa impresa di rappresentare in pianta tutte le città  dei loro domini. Un compito così gigantesco che, per portarlo a termine, non furono sufficienti gli anni di vita dei loro cartografi olandesi, Jacob van Deventer e Anton van den Wyngaerde. 
Per ogni monarca è difficile sottrarsi al desiderio di possedere grandi vedute urbane stampate in più fogli: ne è un esempio l’iconografia di Roma di Antonio Tempesta: un prototipo che avrà  una longeva fortuna fino a quando non sarà  superata dalla nuova pianta et alzata di Giovanni Battista Falda. Altri casi sono elencati nel saggio: dalla grande veduta di Wenceslaus Hollar per Londra o Praga a quella di Mà¤tthaus Merian per Parigi o Basilea. L’intima osmosi tra arte e scienza, tra pittura di paesaggio e topografia, è ancora presente durante il Seicento, ma destinata nel corso dei secoli a scomparire nella specializzazione dei saperi. Anche oggi continuiamo, con altri mezzi e risultati, a «ritrarre» la città  nel suo progressivo modificarsi – coscienti tuttavia che il suo divenire è inafferrabile.


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