Voi europei quanti Errori ma l’Italia ce la Farà
Il recente summit dell’eurozona è stato un doppio fallimento. Non è riuscito a realizzare una maggiore integrazione politica dell’Europa, obiettivo primario della cancelliera tedesca Angela Merkel e degli altri leader politici europei. E non è riuscito a migliorare le prospettive dei titoli di Stato dell’eurozona, perché i politici hanno continuato a insistere sul fatto che solo un’unione fiscale e un’integrazione politica avrebbero
potuto porre un limite
ai tassi d’interesse sul debito sovrano. Il comunicato post summit afferma che ogni Paese dell’eurozona dovrà avere una norma costituzionale che obblighi al pareggio di bilancio, dovrà adottare misure correttive se il suo deficit «strutturale» sarà superiore allo 0,5% del Prodotto interno lordo, e verrà sanzionato se il suo deficit effettivo supererà il 3% del Pil. La cancelliera Merkel aveva sperato che queste regole fossero inserite in una revisione dell’attuale trattato dell’Ue e che potessero pertanto essere fatte valere dalla Commissione europea attraverso la Corte di giustizia europea. La riluttanza della Gran Bretagna a modificare il trattato esistente senza che vi fossero ulteriori garanzie per l’economia britannica significa però che le nuove regole si applicheranno solo ai 17 Paesi dell’eurozona e agli altri che vorranno unirsi a loro, ma, non essendo parte di un trattato ufficiale dell’Unione, non potranno essere imposte dalla Commissione e da altre istituzioni dell’Ue.
Non c’è quindi nessun meccanismo di imposizione delle nuove regole di bilancio, anche se tutti i governi dell’eurozona hanno accettato di sottoscrivere un nuovo accordo. Il risultato sembra un replay del vecchio Patto di stabilità e di crescita, che aveva scopi e sanzioni simili, ma che fu ben presto violato dalla Germania e dalla Francia, e fu poi annacquato al punto da divenire del tutto inefficace.
Anche se la cancelliera Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy e il presidente dell’Unione Europea Herman van Rompuy hanno cercato di usare la crisi attuale per far progredire il loro obiettivo politico di integrazione europea, la loro incapacità a raggiungerlo non deve necessariamente impedire un abbassamento dei tassi di interesse dei titoli di Stato dell’Italia, della Spagna e di altri Paesi. Quei tassi possono essere ridotti dalle politiche dei singoli Paesi per abbattere il deficit corrente e quello futuro.
L’Italia ha buone possibilità di persuadere gli investitori che la sua prospettiva di bilancio, a lungo termine, sarà favorevole. Il deficit è ora inferiore al 4% del Pil. Anche prima della stretta attuata dal nuovo governo di Mario Monti, il Fondo monetario internazionale prevedeva che l’Italia avrebbe avuto un bilancio in pareggio nel 2013. Anche se i recenti inasprimenti fiscali potrebbero deprimere il Pil italiano del 2013 e aumentare temporaneamente il deficit, la modifica alla normativa pensionistica ridurrà i deficit futuri e porrà il rapporto tra debito e Pil su un percorso discendente. Se il nuovo governo riuscirà anche ad avviare cambiamenti nelle regole del lavoro e a creare incentivi agli investimenti che portino la crescita del Pil a un tasso del 2% annuo, in Italia il rapporto tra debito e Pil potrebbe scendere al 60% in meno di 15 anni.
È sbagliato mettere Grecia e Italia sullo stesso piano, come hanno fatto i politici dell’eurozona quando sostenevano che bisognava salvare la Grecia per prevenire un default dell’Italia. Questo mina la fiducia nei confronti dell’Italia. La Grecia ha un deficit al 9% del Pil, un disavanzo dell’8% e un Pil che sta scendendo a un ritmo di più del 5% all’anno. La Grecia non può sperare di riportare sotto controllo il deficit in tempi abbastanza rapidi da stabilizzare il proprio debito e attrarre finanziatori privati. Invece di rimanere in permanenza una sorvegliata speciale della Germania e del Fmi, la Grecia dovrebbe abbandonare l’idea di onorare il suo debito, lasciare l’eurozona e tornare a una dracma più competitiva.
Mario Draghi, nuovo presidente della Banca centrale europea, ha chiaramente e correttamente respinto la proposta francese che la Bce debba annunciare che acquisterà titoli italiani e spagnoli in quantità tali da mantenere i loro tassi di interesse a bassi livelli. Una cosa del genere sarebbe in contrasto con le regole della Bce fissate dal trattato di Maastricht, che vietano il salvataggio dei governi insolventi membri della zona euro. In questo modo verrebbe meno anche l’incentivo per i politici italiani e spagnoli a mettere in atto le misure, politicamente difficili, per ridurre il disavanzo futuro. E si indebolirebbe la fiducia internazionale nella Bce, e quindi nell’euro.
Anche se la Bce può occasionalmente acquistare titoli di Stato per evitare le impennate dei tassi di interesse, per la banca la vera priorità è affrontare la crisi del credito privato che sta minacciando le economie europee. I prestiti interbancari stanno venendo meno perché le banche nutrono dubbi sulla liquidità e solvibilità delle potenziali controparti. Il fatto che le banche siano esposte ai debiti dell’eurozona richiama alla mente in modo terribile la malsana situazione in cui si sono trovati i mercati del credito nel 2008 negli Stati Uniti, quando le banche erano esposte al debito dei subprime e dei titoli garantiti da ipoteca. Il problema è aggravato dalle norme sull’aumento di capitale che inducono le banche europee a ridurre i prestiti.
Draghi dovrebbe dire che la Bce migliorerà la disponibilità di credito privato fornendo alle banche prestiti garantiti da beni collaterali privati. Ma dovrebbe anche chiarire che questi prestiti non devono essere utilizzati dalle banche commerciali per liberare fondi per l’acquisto di titoli di Stato di nuova emissione. Sulla stessa linea, dovrebbe anche respingere la proposta che il Fmi usi i depositi della Bce per acquistare titoli italiani e spagnoli.
Ma che cosa si dovrebbe fare se gli investitori privati internazionali non fossero disposti ad acquistare i 300 miliardi di euro di bond italiani che devono andare sul mercato nei prossimi 12 mesi? Fortunatamente, per finanziare il deficit previsto bastano circa 40 miliardi di euro, mentre il resto è necessario per regolare alla scadenza le obbligazioni esistenti.
Una possibilità sarebbe quella di ricorrere al Fondo monetario internazionale, che sta già sorvegliando lo stato del deficit italiano. Il Fmi dovrebbe essere disposto a fornire il credito necessario senza porre condizioni più dure. Ma se così non fosse, l’Italia potrebbe tagliare le spese e aumentare le tasse per eliminare il deficit, e ripagare il debito in scadenza con nuove obbligazioni piuttosto che in denaro. Mostrando determinazione e capacità di ridurre i deficit futuri, l’Italia dovrebbe essere in grado di recuperare l’accesso al mercato dei capitali. La squadra Merkel-Sarkozy dovrebbe riconoscere di aver preso una strada sbagliata. L’Europa ha bisogno di riforme adattate ai singoli Paesi, non di una rinnovata spinta all’unione fiscale e all’integrazione politica.
*Martin Feldstein, professore
di economia ad Harvard, collaboratore del Wall Street Journal, è stato a capo
negli anni Ottanta dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan
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