Vivere alla giornata

by Sergio Segio | 10 Dicembre 2011 8:59

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Negli anni settanta Reagan, allora governatore della California, decise di tagliare drasticamente i fondi dell’assistenza psichiatrica, specialmente quelli destinati alla psicoterapia. Il taglio faceva parte di un attacco al welfare che anticipò l’onda selvaggia del liberismo che seguì di lì a poco (e di cui Reagan stesso e la Thatcher furono gli artefici). Ma aveva un suo significato particolare ben più nefasto della sua periferica posizione in mezzo a tagli più consistenti e visibili. Segnò l’inizio della fine di uno Stato capace di prendersi cura del dolore psichico dei suoi cittadini con modalità  che non si limitassero alla sospensione anestetica del dolore, che cercassero di elaborarlo e di significarlo e di trasformarlo in uno strumento di cambiamento possibile. L’iniziativa di Reagan, un gradevole autistico (secondo la descrizione di uno dei suoi figli), si collocava in un periodo di riflusso della sensibilità  sociale nei confronti del disagio esistenziale che ha portato col tempo alla scotomizzazione totale di questo disagio. La biologizzazione progressiva del dolore psichico e l’incontrastato dominio politico economico dell’industria farmaceutica hanno chiuso il cerchio. Oggi il malessere delle emozioni e la precarietà  dei legami affettivi sono interpretati soprattutto come disturbi dell’adattamento sociale e dell’efficienza produttiva. La più forte contestazione di questo andazzo viene dall’uso di cocaina (principale concorrente degli psicofarmaci), che peraltro rinforza la prigione da cui si cerca di evadere. Questo la dice tutta sull’impasse in cui viviamo e la perversione progressiva del nostro rapporto con la realtà . Sottovalutare l’importanza del dolore (la sua funzione di segnalare ciò che non funziona nel campo dei nostri interessi vitali) è un errore grave. Fare della desensibilizzazione la cura privilegiata delle nostre emozioni a livello sociale, trasformando (nella migliore delle ipotesi) il nostro spazio privato in un fortino dentro il quale barricarsi per resistere, crea una psicologia collettiva particolarmente vulnerabile. Una società  che per evitare il confronto con la sofferenza si appiattisce sul presente, vivendo sull’eccitazione o sulla delusione del momento, rischia costantemente di regredire verso un passato consolatorio o di fuggire in avanti verso derive messianiche tanto pericolose quanto velleitarie. La negligenza dei politici nei confronti della salute psichica della collettività  è imbarazzante. Soprattutto se la si confronta con la sofisticata abilità  con cui spesso manipolano le incertezze, le paure, le diffidenze e le ansie persecutorie che attraversano periodicamente i loro popoli per trarre vantaggi a breve termine. I governanti che devono gestire momenti di crisi sociale profonda è meglio che non si arrendano alla logica dei mercati, i quali messi sotto pressione agiscono secondo l’assunto emotivo dell’attacco e fuga che fa di loro il più temibile nemico dell’azione costruttiva. Il nostro vivere alla giornata, restando impigliati nella crisi, e la tirannia dei mercati sono le due facce della stessa medaglia.

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