Una ricetta sbagliata

by Sergio Segio | 9 Dicembre 2011 8:26

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La ricetta è la stessa: tagli alla spesa pubblica, aumento imposte, cambiamenti strutturali dell’economia cominciando dalle liberalizzazioni. Il giudizio senza appello è di Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia, ex vice presidente ed ex economista capo della Banca Mondiale, che all’argomento ha dedicato articoli e un ampio capitolo del libro “La globalizzazione e i suoi oppositori”. Nato nel 1944 per assicurare la stabilità  del sistema finanziario internazionale, il Fondo monetario dopo la decisione di Richard Nixon di sganciare il dollaro dall’oro, nel 1971, e l’insolvenza del Messico nel 1982, cambia missione e impone ai Paesi debitori piani di aggiustamento strutturale secondo principi neo liberisti. È iniziata l’era Reagan-Thatcher e si espande l’ideologia dello Sviluppo grazie alle grandi opere finanziate dalla Banca Mondiale. I risultati sono l’aumento della povertà  e la distruzione della natura su scala planetaria. Jeffrey Sachs, autore di controversi interventi monetari nella crisi della Bolivia del 1985 ma negli ultimi anni sempre più critico, racconta lo scontro con i funzionari del Fmi arrivati a La Paz che pretendevano gli interessi del debito «da un paese a pezzi, con la gente ridotta alla fame, miniere chiuse, caos alle porte», secondo le istruzioni dettate, scopre, da Citibank. Dal 1988 al 1994 i summit annuali del Fondo e della Banca mondiale saranno contestati da un movimento internazionale che fa rete e organizza controvertici e campagne. Il Fondo intanto ha cambiato di nuovo missione. Dal 1991 si accorge del valore di risorse fino allora distrutte senza rimorsi. Obiettivo iniziale è l’acqua, che deve essere preservata, quindi va privatizzata. Cominciano le lotte nel mondo per difendere il più importante bene comune.
Le crisi finanziarie che dal 1997 al 2001 affliggono Asia, Russia e America latina vedono in prima linea piuttosto gli Stati Uniti ma anche il Fondo ci mette del suo. Stiglitz, che ha viaggiato a lungo per il Tesoro Usa in Asia, fa un’analisi impietosa degli interventi imposti, tutti fallimentari. «Sono misure che non hanno nessun fondamento»: le liberalizzazioni servono soltanto a Wall Street, non è vero che non controllare il movimento dei capitali fa bene alla crescita e si scambiano sbagliando deficit effettivo e deficit strutturale. «In una fase recessiva quando diminuisce il gettito fiscale e si fanno tagli alla spesa o si aumentano le imposte, nessun paese può avere il bilancio in pareggio» e metterlo nelle Costituzioni è demenziale. Il denaro del Fondo per sostenere il tasso di cambio, ricorda, è stato usato per rimborsare le banche e dai ricchi locali per cambiare in dollari e portarli all’estero. La povertà  è raddoppiata, aumentata la disoccupazione, banche chiuse. Il peggio è stato evitato dalla solidarietà  popolare scattata nei quartieri e nelle comunità . I Paesi in difficoltà  avevano piani diversi, ragionevoli ma non stimati dal Fondo, convinto che la colpa del crollo fosse da addebitare a governi «corrotti e marci». Si sono salvate soltanto la Malesia, che ha rifiutato di applicarli, e la Cina, che va per la sua strada, come farà  alla fine anche l’Argentina.

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