by Editore | 27 Dicembre 2011 8:02
TRIPOLI – La Libia è rinata, per la seconda volta. Sabato sera è tornata a celebrare la festa della sua indipendenza, che aveva dimenticato per più di quarant’anni. Folle, fanfare, fiumi di gioventù nelle piazze di Tripoli, famiglie in visita tra le macerie di quella che fu la residenza di Gheddafi a Bab el Aziziya. E le consuete raffiche di kalashnikov che risuonano a tratti, un po’ inquietanti, un po’ liberatorie tra le vie dei quartieri, a festeggiare un passato dimenticato, di cui tutti sembrano avere oggi brama di riappropriarsi.
Il 24 dicembre del 1951 la colonia ammainò il tricolore italiano e divenne un libero Stato, una monarchia, sotto l’allora sessantenne re Idris. Così fu per diciott’anni, finché Gheddafi prese il potere, cacciò il re, fondò la sua repubblica e impose l’oblio su tutto quello che era stato prima che egli diventasse il nuovo padrone della Libia. Adesso, in queste prima settimane di libertà conquistate al prezzo di sei mesi di guerra civile e migliaia di vite, tutto ciò che evoca quegli anni lontani e occultati affascina a dismisura i tripolini. I poster con la faccia di re Idris e di suo nipote Hasan – monarca per un giorno prima di essere imprigionato da Gheddafi la sera del colpo di Stato – vengono incollati sulle vetrine dei negozi. Le bande suonano la marcia reale e anche la bandiera nazionale, abolito il verde gheddafiano, è tornata quella rossa, nera e verde che venne issata per la prima volta la vigilia di Natale di sessant’anni fa.
I ventenni seguono con la bocca spalancata i documentari su quella che viene presentata come una remota età dell’oro nazionale: «Non ne sapevo niente, a scuola non ce ne hanno detto una parola», commenta Rodwan Ejlase, studente di Belle Arti poco più che ventenne, guardando le immagini sgranate di Idris che riceve una giovanissima Elisabetta d’Inghilterra. Garbati notabili dai capelli bianchi come Belgassem Muntasser, figlio del primo premier della Libia indipendente, offrono i loro servigi al Consiglio nazionale di transizione perché, dice Belgassem, «siamo in pochi a saper riconoscere le facce sulle vecchie foto in bianco e nero e dare un nome a persone che la dittatura aveva costretto a dimenticare». I videomessaggi augurali dell’erede al trono, Muhammad, che si attarda prudentemente nell’esilio londinese anche se fin da febbraio si è schierato con l’insurrezione, vengono accolti da applausi entusiasti e grida di «Allahu Akbar».
In prima fila tra le autorità che assistono alle celebrazioni del sessantennale dell’indipendenza, applaude anche Abdelhakim Belhadj, il volto più inquietante del nuovo potere libico, capo militare dell’insurrezione e oggi alla testa del Tripoli Military Council. Ex jihadista, veterano dell’Afghanistan, considerato ancora pochi anni fa l’uomo di Al Qaeda in Libia anche se ora fa figura di grande amico degli americani, Belhadj è un mistero politico, un’incognita in armi sospesa sul prossimo futuro della Libia. Il fatto che onori della sua presenza questa manifestazione impregnata di nostalgie monarchiche non rivela tanto le sue opinioni personali, quanto il clima di provvisorietà , di sospensione, di incerta libertà in cui vive oggi la Libia, affacciata su un futuro aperto che sembra sorridere a tutti.
Mille progetti convivono, anche se non potranno farlo per sempre. Chi sogni di fare della Libia, grazie alla rendita petrolifera, una Dubai o un Qatar del Mediterraneo, chi un sultanato salafita; chi prepara le elezioni e chi olia il kalashnikov; chi ripassa il Corano e chi cerca un wi-fi per connettersi a Facebook; chi apre commerci investendo sulla ripresa dell’economia nazionale e chi, esaltato dalle battaglie di luglio e di agosto, parte volontario per la jihad siriana contro il sanguinario regime di Assad.
In questi giorni a Tripoli sembra ci sia posto per tutti: non può durare, ma si trascorrono meravigliose giornate di libertà . Nella centralissima Piazza Algeria, davanti al palazzo che ospita il potere cittadino, un gruppo di manifestanti si dà il cambio ormai da quindici giorni, come per trasformarla in una mini-piazza Tahrir. Sono giovanissimi, maschi e femmine, allegri, instancabili. Scandiscono slogan, agitano bandiere. Che cosa volete? «Case, lavoro, trasparenza. Che cosa sta facendo il Consiglio? I combattimenti sono finiti in ottobre, siamo a dicembre, dove sono i denari, dove sono i posti di lavoro?». Calma, ragazzi, verrebbe voglia di dirgli, ma salendo le scale del municipio si incontrano facce contente di consiglieri, liete anziché preoccupate: «Visto? È la democrazia libica!».
Nel suo ufficio Abdurrzak Abuhajar, presidente del Consiglio tripolino – diciamo il sindaco -, si volta verso il suo collaboratore con un sorriso che sembra dire “eccone un altro” quando gli chiediamo, come prima domanda, come stia andando il disarmo delle diciassette milizie tuttora presenti in città . «Le armi pesanti sono state consegnate e portate via», risponde. «I combattenti verranno inquadrati dal ministero della Difesa e da quello degli Interni; altri andranno all’estero a perfezionare la loro formazione, grazie ad accordi già firmati». Risposta che non dà conto delle migliaia di kalashnikov in circolazione. Prossimo compito? «Lavoro per i giovani, case per chi mette su famiglia». E fra sei mesi si vota? «Sei mesi, forse qualcosa di più». Se davvero i libici riusciranno a salvaguardare la libertà conquistata a così caro prezzo, allora quella che finora è stata chiamata la “primavera araba” potrà diventare per loro un’estate dai dolcissimi frutti.
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