Sprechi, ritardi e malaffare ecco perché a Napoli è tornato l’incubo rifiuti
Napoli. Cominciò così anche l’ultima volta. Cominciò con la paura della crisi prima ancora che i sacchetti inquinassero l’aria, avvolgendo vicoli, piazze, interi quartieri e comuni. Oggi è l’Europa a ratificare che l’emergenza non è mai finita, e minaccia condanne all’Italia e multe salatissime all’emergenza campana perché ne prevede il ritorno, in assenza di una «pianificazione concreta». Bruxelles concederà forse altri 60 giorni di proroga. Basteranno? I Palazzi napoletani sanno che basta poco a far tornare l’invasione dell’immondizia, come il Natale di un anno fa, o di due anni fa, o a ritroso per 18 anni. Ne sono una spia anche le tensioni appena esplose tra il neo ministro all’Ambiente Corrado Clini e il sindaco Luigi de Magistris. Con il primo che spinge per l’inceneritore a Napoli e ipotizza l’invio dei militari per contrastare anche «regie criminali» e il primo cittadino che continua a ribadire il no al termovalorizzatore. E batte il pugno: «Le ecomafie non le scopre Clini, i soldati non servono, l’inceneritore a Napoli non si farà . La città ha già dato».
È lo stesso sindaco che aveva puntato tutto sulla differenziata – «al 70 per cento entro la fine dell’anno» – mentre Napoli chiuderà il 2011 con un modesto 20 per cento. Lentezza dovuta anche al blocco di risorse mai arrivate da Regione, ministero e Unione europea. Né possono risolvere la crisi le navi che salperanno per l’Olanda, verso Rotterdam e Delfziyl: i contratti ci sono, saranno inviate 200 mila tonnellate e con risparmio di costi (105 invece delle 112 fissate dalla Provincia di Napoli) ma durerà un anno. Se oggi Napoli non affoga nell’immondizia è perché la Puglia sta inghiottendo ogni giorno, da mesi e con lauta ricompensa, circa mille tonnellate al giorno di rifiuti napoletani. Camion più leggeri viaggiano verso altre regioni. Se il problema non è ancora esploso è perché resta aperta, solo per 30 giorni, la discarica di Terzigno. E perché funzionano, ancora per pochi mesi, gli sversatoi dell’entroterra campano: a San Tammaro (Caserta), Savignano Irpino (Avellino) e Sant’Arcangelo (Benevento). Ma che cosa c’è dietro questa eterna emergenza?
UN AFFARE DA 4 MILIARDI
Eccola, l’unica “industria” pubblica del Sud, un’attività fiorente che da diciotto anni non chiude nemmeno di notte. Che, anzi, proprio al calare del buio riprende i suoi viaggi, fagocita chilometri e mari, in cerca di nuove discariche e buchi fuori regione. È la fabbrica opaca e efficientissima dei rifiuti campani, unica area in Europa dove si spendono, anche oggi, dai 170 ai 190 euro a tonnellata per spedire la “roba” fuori regione. Dove smaltire i cassonetti bruciati costa mille euro a tonnellata, 8 volte il prezzo normale. E dove le passate crisi e le storiche clientele hanno gonfiato gli organici delle società pubbliche, che si ritrovano oggi con un lavoratore su tre in esubero. Una Caporetto occupazionale e finanziaria non meno grave delle ricorrenti ondate di sacchetti. A cinque anni e mezzo dal j’accuse del presidente Giorgio Napolitano, la crisi è sempre dietro l’angolo. Era il 20 giugno 2006 quando il capo dello Stato, alla prima uscita «pubblica» a Napoli, affrontò «l’annosa questione dei rifiuti ancora penosamente irrisolta». Usò parole dure, molto attuali: «Occorre un’azione risoluta, contro cieche resistenze e contro palesi illegalismi». A che cosa si riferiva il presidente? Con quali sistemi, vantaggi personali e criminali, è stato tirato su il carrozzone che ora rischia di implodere?
I CONTI DI RIFIUTOPOLI
Due miliardi di euro bruciati e altri due di debiti lasciati in eredità . Gli addetti del settore, tra diretti e indiretti, sono circa 30 mila. Una bomba sociale che rischia di esplodere visto che gli esuberi potenziali – tutti dipendenti a carico dei conti pubblici con ridottissime capacità lavorative – sono stimati in 10 mila unità . Come si sono gonfiati a dismisura gli organici delle aziende municipali? È utile ricordare la testimonianza in Procura di Salvatore Fiorito, ex presidente della coop Davideco legata da una catena di subappalti all’Asìa, l’azienda comunale per la raccolta. È il 27 aprile scorso. «C’era un giro di denaro in termini di assunzioni fantasma – racconta Fiorito – Versavo 24 mila euro al mese a un avvocato e 6mila euro a Corrado Cigliano (capocantiere di quell’Enerambiente che gli aveva girato l’appalto e fratello dell’ex consigliere comunale Pdl Dario, ndr). Ricevevo di volta in volta, ad ogni convenzione della cooperativa, le liste di persone. Anche per assunzioni fittizie, sì, gente che non lavorava». Non è un caso isolato. Sull’emergenza è fiorito nel corso degli anni un welfare degenerato. In Campania ci sono 3 lavoratori nel ciclo dei rifiuti ogni mille abitanti, contro l’1,7 della media nazionale. Quanto costa questa anomalia? I calcoli li ha fatti la Corte dei Conti: se la regione lavorasse nel campo con la stessa eccellenza di Salerno, (che viaggia al 70 per cento di raccolta differenziata, contro il quasi 20 di Napoli) si risparmierebbero 200 milioni l’anno. Ma chi gestisce davvero il servizio di nettezza urbana in Campania?
UN ARCIPELAGO IN ROSSO
A mandare avanti l’intero ciclo della monnezza è da sempre – commissari o no – un arcipelago di sigle e società tutte in perdita, fatto di ex consorzi e di megastrutture fantasma, appalti e subappalti. Molte di queste realtà sono figlie delle ingerenze dei clan e del patto tra politica e camorra. Basti su tutto la vicenda di Nicola Cosentino, ex sottosegretario e attuale coordinatore campano del Pdl: oggi imputato per concorso in associazione mafiosa con i casalesi, specie nel settore del sistema rifiuti. Si parte da Asìa, azienda municipale per i rifiuti di Napoli guidata dal neo presidente Raphael Rossi, affiancato come ad dal presidente di Federambiente Daniele Fortini. I due hanno davanti scelte non facili e un organico ipertrofico: l’azienda ha assorbito nel 2009 i 279 dipendenti dell’ex bacino Napoli 5. Un carrozzone nato per raccogliere il cartone a Napoli che per anni ha pagato i suoi impiegati senza che nessuno di loro lavorasse davvero. Con il risultato scontato di registrare 65 milioni l’anno di costi a fronte di 3 di entrate.
Quest’anno per eliminare i subappalti Asìa ha assorbito anche i 500 dipendenti di Docks e Lavajet. Quanto pesa questa situazione sui conti della società ? Molto: nel 2003 Asìa raccoglieva 549mila tonnellate di rifiuti pagando, in tutto, 58 milioni di stipendi. Nel 2010 ne ha trattati 120 tonnellate in meno ma garantendo buste paga per 94 milioni, quasi il doppio. Raccogliere un chilo di rifiuti a Napoli costava otto anni fa 25 centesimi. Oggi il prezzo è salito a 35 centesimi. La media nazionale è stata nel 2010 attorno ai 27 centesimi. Risultato: il Comune ha dovuto versare lo scorso anno 170 milioni nelle casse dell’Asìa, 45 in più di quelli che pagava nel 2004 e la città partenopea ha la Tarsu più alta d’Italia: 453 euro l’anno per famiglia media, il doppio del resto d’Italia.
WELFARE DELLA MONNEZZA
Asìa è stata un assumificio e anche altro. Il sistema del welfare dei rifiuti è un’organizzazione articolata dove l’emergenza – nell’area grigia – genera profitti. «Il solo noleggio di bilici, gli autotreni con rimorchio che trasportano l’equivalente di dieci camion, e servono a trasferire fuori provincia l’immondizia, durante l’emergenza del 2009 è costato ad Asìa 6 milioni di euro», racconta il vicesindaco Tommaso Sodano, in prima linea nella guerra a monnezzopoli. Il male è contagioso e affligge un po’ tutti gli enti locali. Prendiamo la Astir, la macchina dei rifiuti gestita dalla Regione Campania su cui la Procura di Napoli ha appena aperto un’inchiesta su 38 assunzioni politiche ad personam disposte dalla precedente gestione bassoliniana con l’assenso della destra. La Astir conta 700 dipendenti e versa in una situazione drammatica: ci si appresta alla cassa integrazione per 300 di loro che al momento non lavorano ma vengono pagati. L’assurdo è che la Regione ha affidato lavori milionari nel settore delle bonifiche ambientali ad aziende esterne (tipo Jacorossi e Idrojet) senza utilizzare Astir.
Altro serbatoio di stabilizzazione occupazionale è la regionale Arpac nata nel 2001 e proprietaria allora della Pan, il famigerato centralino per l’emergenza dove lavoravano 34 persone per rispondere a 4-5 chiamate al giorno, garantendo 3 milioni di incassi a fronte di 6,7 milioni di uscite solo come stipendi. Da allora quasi nulla è cambiato: Arpac ha chiuso il 2009 in rosso per 5 milioni e avrebbe chiuso il 2010 in rosso per 9,5. L’ultimo bilancio registra 10 milioni di costo del personale. Ancor oggi perde più euro di quanti ne incassa.
Stessa musica per Sapna, società della Provincia. Il presidente dell’ente Luigi Cesaro impone come direttore Giovanni Perillo, fedelissimo della filiera istituzionale che faceva capo all’ex supercommissario Bertolaso. La Sapna (che si autocontrolla dal punto di vista contabile) è al centro di molti interrogativi per i trasferimenti fuori regione. Ovvero: 100mila tonnellate di rifiuti a un prezzo medio di 171 euro alla tonnellata, mentre la media in Italia è intorno agli 80. Solo negli ultimi mesi sono stati spesi 20 milioni per i trasporti verso discariche private. Nel 2010, quando Sapna era ancora una scatola vuota, la società è riuscita a pagare 2,4 milioni di stipendi e 222mila euro di consulenze.
Chi ci guadagna – oltre alla politica e alla camorra – nel ciclo imperfetto, è il termovalorizzatore di Acerra. A valle della telenovela Fibe (le furono sequestrati 750 milioni, misura poi sconfessata dalla Cassazione) chi si frega le mani ora è Partenope Ambiente, la controllata di A2A a cui è stata “regalata” la gestione di Acerra. Il bilancio 2010 si è chiuso con un utile netto di 6 milioni e un margine operativo di 18 milioni (su 57 di entrate). Partenope Ambiente guadagna ben 13 euro per ogni tonnellata bruciata nel megaforno. È un altro dei miracoli dell’industria monnezza, la più fiorente del Sud.
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