Siamo tutti senegalesi

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Si sono messi a rimproverarlo, allora gli ho battuto sulla spalla e gli ho detto: «Hai ragione, siamo migliori». È rimasto un po’ interdetto, poi ha detto: «Io non sono razzista». Abbiamo concordato che potevamo dire: «Siamo tutti migliori». 
La manifestazione non era, come distrattamente veniva da dire, «per» i senegalesi, ma «con» i senegalesi, e specialmente per noi. «Noi» abbiamo la tentazione di trattare questioni enormi come le migrazioni come se ne decidessimo. Io, per esempio, non saprei bene che cosa fare, se dipendesse da me, e tutt’al più mi par di sapere che cosa non farei: molte cose. (Farei bensì come Andrea Riccardi, la visita alla tomba di Jerry Masslo a Villa Literno, al campo rom incendiato a Torino, al Palazzo Vecchio di Firenze: che non è ancora una linea politica, ma la premessa, e quanto diversa dall’altra!). «Prima o poi qualcuno di noi verrà  ammazzato, ed allora ci si accorgerà  che esistiamo», aveva detto Masslo, e toccò a lui, «prima». Dev’essere arduo per chi governa fare un buon uso della parabola del samaritano. Per noi un po’ meno. Il nostro prossimo non sono «i migranti», o «i senegalesi»: sono persone, quelle in cui ci imbattiamo, che si imbattono in noi. Perché sia chiara la reciprocità  (pensiamo infatti a quella parabola immaginando di trovarci nei panni di quello che può aiutare il malcapitato, e mai del malcapitato) copio qui la motivazione della medaglia d’oro conferita da Ciampi nel 2004 a Cheikh Sarr, 27 anni, senegalese, lavorava da muratore: «Mentre si trovava nella spiaggia di Marina di Castagneto Carducci, udite le invocazioni di aiuto di un bagnante, si gettava in mare per soccorrerlo. Compiuto il salvataggio veniva sopraffatto dalla violenza del mare… Fulgido esempio di eccezionale coraggio, nobile spirito di altruismo e preclara virtù civica». (Era ferragosto, l’italiano salvato se ne andò senza dire grazie: a proposito di clandestini). Sarr aveva una bambina di 10 mesi, non l’aveva mai vista. Diop Mor aveva una figlia di 13 anni, e non l’aveva ancora mai vista, se non nella foto che sabato stava in testa al corteo.
È stato grande, composto e commovente, il corteo. Gli africani erano tanti, parecchi latino-americani, e italiani tanti. Tuttavia non c’era “la città “, quella sua grandissima parte che non ha un impegno politico o associativo, che riempiva il centro natalizio e si chiedeva se ci sarebbero stati disordini – o non si chiedeva niente. C’è da tempo un abuso della nozione di zona grigia. Ma una tragedia come quella che si è consumata a Firenze, vittime innocenti e inermi scelte per il colore e la fisionomia, vale da rivelazione. Un’autopsia sul corpo vivo di una comunità , e si capisce che la comunità  se ne ritragga e abbia voglia di ricucire alla svelta e tornare all’usato. Ma non si può. Traduco da un sito senegalese questo commento: «Gli italiani del nord non considerano nemmeno quelli del sud come concittadini, e invocano una secessione. E il partito che incita a questo ha ministri nel governo. Così i meridionali, umiliati, se ne rivalgono come possono sui poveri immigrati di colore, e questo costringe il migrante africano e senegalese a subire un doppio razzismo!».
Sapevo poco di senegalesi, in galera sono rari. C’era una bella ricerca torinese del 2005, o i libri e la rivista web di Pap Khouma sull’Italia raccontata dai migranti – i Modou modou, o, le donne, Fatou fatou – che tornano in patria. Sarebbe importante che un analogo lavoro di conoscenza reciproca venisse svolto da italiani e senegalesi, a partire dalla ferita di questi giorni, impegnasse l’università  e la comunità  e la gente. Sabato Enrico Rossi, presidente della Toscana, ha esortato i senegalesi a raccontare con confidenza le loro storie ai nostri concittadini più fragili, i vecchi, e ad ascoltare le loro. Quanti erano in quella piazza, e hanno sentito la fraternità  di un abbraccio e la civiltà  delle parole, non vorrebbero ridiventarsi invisibili e diffidenti. I luoghi di incontro sono quasi recintati: dove si presta un’assistenza volontaria, dove si stringono legami politici e umani, come nei centri sociali. Era evidente lungo la manifestazione un legame politico e umano fra giovani italiani “estremisti” e stranieri. Ne riconosco forza e debolezza, perché ricordo la comunità  instaurata fra ragazzi e ragazze di Torino o Milano e giovani immigrati dal meridione alla fine degli anni ’60, la trasfusione umana che anticipava l’intesa politica. Qui si tratta di un sud più a sud, ma di una fusione altrettanto intensa. Quanto alla debolezza di allora e di oggi, sta nell’aderire all’altro, allo straniero rifiutato, fino a estraniarsi e ripudiare a propria volta la propria società , a sentirsene fieramente transfughi. Diventare senegalesi o rom o di qualunque sud del cuore, per non essere più italiani, disdettare questo mondo e sentire al microfono dell’altro che “Dio è grande”. Ma per obiettare all’equivoco che si annida nel ripudio di un’identità  ereditata in nome di una prescelta, nel mettersi nei panni altrui fino a scoprirsi in maschera, bisogna pur meritarsi la simpatia per gli altri di cui gli “estremisti” e i loro bravi cagnolini sono capaci. Senza di che, non ci si stupirà  che persone cui sono assassinati i fratelli per il colore della pelle, di cui sono bruciate le baracche per una vociferazione, scegliessero di rispondere altrimenti che con le parole magnanime di Pape Diaw. Non c’era “la città “, sabato. (Tanto meno “la politica” del centrodestra, esonerata dal testimoniare dolore e vergogna, magari col pretesto che “la sinistra” li strumentalizzi).
I senegalesi morti ammazzati raggiungono la necrologia all’ingrosso, la cifra senza nomi propri degli annegati. In Borsa, il differenziale fra la loro vita media e la nostra è di vent’anni, e per quelli che tentano la traversata del deserto e del mare di cinquant’anni e più. La zona grigia dice: “Ammazzarli no, però il buonismo…”. Il cattivismo è una semina che ha già  raccolto tempesta. Negare il voto, negare la cittadinanza a chi nasce qui – negare perfino la registrazione all’anagrafe di chi nasce da una madre “irregolare”, come in una Betlemme: è pazzia. Lasciamo alle autorità  gli scioglilingua sull’immigrazione regolare e irregolare, ma quelli incontriamo – in un ambulatorio, su un autobus, per strada – sono persone, e la gran parte dei regolari di oggi sono arrivati ieri da irregolari, e tanti irregolari di oggi saranno regolari domani. Le schiere non sono così spartite come negli affreschi toscani del Giudizio Universale, o somigliano tutt’al più alle contese fra diavoloni e angeli che tirano di su o di giù i corpi in bilico. Tiriamo, noi, dalla parte buona; e così sia di noi.


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