by Sergio Segio | 10 Dicembre 2011 9:40
Il miraggio diventa realtà , ma Bruxelles già esige austerity. Schiaffo invece a Belgrado, con il rinvio della decisione sullo status di paese candidato I capi di stato e di governo della Ue hanno firmato il trattato di adesione della Croazia al club dei 27. Il paese balcanico, dopo un referendum che dovrebbe svolgersi nei primi mesi del 2012 e un ulteriore verifica Ue sulle “riforme”, entrerà nell’Unione dal primo luglio del 2013 diventandone il 28mo stato membro. Una decisione importante ma marginale, presa all’ombra della lunga nottata del summit sul futuro dell’euro. Il primo a siglare il documento è stato il neopremier belga, Elio Di Rupo. Fra i leader co-firmatari il primo ministro italiano, Mario Monti (assente Nicolas Sarkozy, che ha delegato il responsabile degli affari europei, Jean Legnetti), il premier spagnolo, Josè Luis Zapatero alla sua ultima presenza europea. «In un momento di crisi, come quello che stiamo vivendo – ha detto il presidente dell’Ue, Herman Van Rompuy – è bene ricordare quanto insieme abbiamo raggiunto. Per oltre 500 milioni di cittadini, l’Ue oggi è di gran lunga il continente più prospero, sicuro e libero della Terra». Con un’enfasi retorica che si è ben guardato dall’utilizzare al momento della conferenza stampa sui magri risultati della lunga trattativa inter-europea. Stesso messaggio dal presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. Con forte soddisfazione del presidente croato, Ivo Josipovic e della premier uscente, Jadranka Kosor, sconfitta nelle elezioni politiche della scorsa settimana. Fa davvero un certo effetto la notizia della firma da parte della Croazia del Trattato di adesione all’Unione europea. Una sensazione duplice, per i Balcani del dopoguerra, ma in realtà alle prese con conflitti irrisolti, e per l’Europa stessa ormai sempre più “irrisolta” e balcanizzata da interessi nazionali contrapposti e dentro la più grave crisi economica e finanziaria che abbia mai investito il Vecchio Continente. La bandiera europea, azzurra con le stelle in cerchio, era infatti, oltre alla rivendicazione nazionalistica, innalzata dalle milizie armate che combattevano già nel 1991 iniziando la devastazione della Federazione jugoslava. L’Unione europea, ancora Cee, iniziava i primi passi nella sconosciuta località di Maastricht e, di fronte all’implodere di un paese sovrano parte della storia europea del sud-est, non impedì quel disfacimento sanguinoso. Anzi. Ieri il presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek, ha dichiarato rivolto a Zagabria e a tutti gli altri staterelli balcanici: «Dopo la fine delle guerre dei Balcani potrete trovare la riconciliazione attraverso il comune ingresso nell’Ue». Ma non era meglio fermare quella guerra fratricida dichiarando che solo se rimanevano uniti nella Federazione jugoslava quei popoli sarebbero entrati a pieno titolo nelle istituzioni europee? Invece, nonostante esistesse ancora per un anno fino al 1992 un governo unitario jugoslavo, l’Europa riconobbe a cominciare dalla Germania e dal Vaticano le indipendenze slovena e croata autoproclamate sulla base dei principi etnici di slovenicità e croaticità . I nazionalismi interni accesi e armati con abbondanti sostegni occidentali inviati «per sostenere la democrazia» fecero il resto e tutto poi precipitò in Bosnia Erzegovina, crogiolo di ogni identità etnica, nazionalista e religiosa della ex Jugoslavia. È stata questa “modalità balcanica” a connotare l’origine del processo di unificazione europeo: ad una distruzione, correlata dalla corsa a nuovi protettorati nei Balcani (come in tutto l’Est, il 1991 è l’anno della fine dell’Urss), si è accompagnato il processo di costruzione, vale a dire il confronto di rapporti di forza tra i cosiddetti paesi guida, Germania e Francia. Ora siamo quasi alla nemesi. Perché, venti anni dopo, uno degli obiettivi della “guerra patriottica” croata, guidata dal conducator Franjo Tudjman, sembra realizzato. Proprio mentre la casa europea brucia e, quindi, aumenterà l’isolamento dei Balcani. Ridotti da un decennio di aspettative del miraggio-Bruxelles ad un’area di sottomercato, di merci e delocalizzazioni, com’è ora la Croazia, di fatto appendice economica, con la Slovenia – già nell’Ue -, della Germania. Mentre il tasso di crescita croato è fermo a +0,5 e la disoccupazione è oltre il 17%, Bruxelles s’aspetta subito misure di austerity. Ma a Zagabria, come a Lubjana, i precedenti governi appena sconfitti “a sinistra” sono caduti proprio per l’annuncio di tagli al welfare, aumento dell’età pensionabile e annuncio di radicali privatizzazioni. Fanno festa a Zagabria, dove ieri la magistratura ha messo sotto accusa per corruzione l’intera leadership dell’Hdz, fin qui al governo e al potere. Ma in tanti s’interrogano se l’adesione significherà davvero, con questo disastro dell’euro, migliori condizioni di vita, welfare e occupazione. Come una doccia fredda è stata invece la notizia che l’Unione Europea ha rinviato a marzo del 2012 la decisione sulla concessione dello status di paese candidato alla Serbia. Belgrado aspettava con ansia di ottenerla già ieri, anche perché ha esaudito a tutte le richieste: ha permesso l’arresto all’Aja dei super-ricercati Karadzic e Mladic, ha votato la restituzione dei beni confiscati dai comunisti agli ungheresi collaborazionisti dei nazisti, ha “marchionnemente” insediato a Kragujevac la Fiat Serbia regalando al Lingotto massicci investimenti e sgravi, ha intavolato trattative con Pristina fin quasi a riconoscere una doppia vigilanza sui presunti “confini” di un territorio che considera ancora sua regione costitutiva. Invece le conclusioni del Consiglio europeo rimandano tutto, invitando i ministri degli esteri dei 27 a «esaminare e confermare che la Serbia ha continuato a dimostrare un impegno credibile e che ha fatto ulteriori progressi verso l’attuazione in buona fede degli accordi» con il Kosovo. Nei giorni scorsi, dopo gli scontri nel nord del Kosovo che hanno coinvolto militari tedeschi della Kfor-Nato, la stessa Angela Merkel si era detta contraria alla concessione dello status di paese candidato alla Serbia, sostenendo di volere «più chiarezza sugli impegni di Belgrado al dialogo con Pristina»: vale a dire che la Serbia deve perdere di sua spontanea volontà il 15% del proprio territorio e riconoscere il Kosovo, in aperta contraddizione con la sua nuova costituzione voluta anche dal presidente serbo, il filoeuropeo Boris Tadic, dove sta scritto che il Kosovo è parte storica della Serbia. Come del resto riconosce la Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Non a caso il presidente serbo Boris Tadic in un articolo uscito ieri sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, metteva in guardia da ulteriori ritardi e nuove condizioni nel processo di integrazione europea di Belgrado, affermando che questo favorisce l’instabilità in Serbia e nel resto dei Balcani occidentali, «rafforzando nazionalismo e intolleranza». L’indipendenza del Kosovo, proclamata unilateralmente nel febbraio del 2008, spacca l’Unione europea e divide l’Onu, nel nord del paese la minoranza serba è impegnata da due mesi con centinaia di barricate a impedire l’invenzione di una frontiera tra stati a nord di Kosovska Mitrovica. Ogni giorno nel nord-Kosovo si alzano in volo gli elicotteri da guerra della Nato. Lì, nel sud-est europeo, la miccia balcanica davvero non è spenta.
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