Rodotà , l’apologia del moralismo nell’era antipolitica

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Il titolo è di quelli che fa rizzare i capelli in testa agli immoralisti, ai cinici. E ai teorici della politica come sfera del tutto svincolata dalla morale. Ma a leggerlo bene, L’elogio del moralismo di Stefano Rodotà  (Laterza, pp. 93, Euro 9), non è un’apologia del moralismo convenzionale. E nemmeno ha a che fare con l’antipolitica. Perché la silloge di scritti dal 1992 al 2011 che lo compone accentrati attorno al nesso legalità , illegalità  e costume civico è un elogio non della morale, ma dell’etica pubblica. E dell’«intransigenza» necessaria a preservarla, soprattutto in Italia. In che senso? Presto detto. Come comportamento diffuso tra i cittadini. Come risorsa e «limite» della politica. E infine come custodia dei valori della nostra Costituzione repubblicana. Ma c’è un altro punto: il «moralismo» di Rodotà  è anti-ideologico, e non è pedagogico. Né potrebbe esserlo, in un giurista laico così avverso a ogni intrusione nella autonomia dei soggetti (dal piano bioetico ai temi della privacy). Insomma quello di Rodotà  è un «moralismo» che demistifica. E che fa leva sui contrasti tra il dire e il fare, tra conservatorismo etico conclamato, e plateale edonismo esibizionista del berlusconismo. Problema che resta rilevante in generale, sul piano dello stile pubblico di una classe di governo e del suo leader. Di là  degli aspetti penali. E che vale per tutti i gruppi dirigenti che aspirino al governo. Vincolati, come da Costituzione appunto, a «disciplina e onore».
TANGENTOPOLI E GIUDICI
Quanto all’antipolitica, Rodotà  svolge il ragionamento che segue. Essa è (ri)nata a suo avviso da un insieme di fattori, precipitati poi in Tangentopoli e riprecipitati ancora in illegalismo, niente affatto sradicato (anzi!). E a monte c’è stata una politica che prima ha lasciato ogni controllo di legalità  ai giudici. Sottraendovisi per anni e anni. E poi ha subito la straordinarietà  dell’intervento giudiziario. Tentando di continuo (da destra) di comprimere e sradicare il contrappeso dei giudici. All’oggi però ciò che più preoccupa l’autore è proprio la fuga in una forma «altra» rispetto alla Carta: fuga nel plebiscitarismo che svuota parlamento e corpi intermedi. Con la scusa dell’efficienza e dell’operatività  (la famosa governabilità  craxiana). Addirittura per Rodotà  «la perversa legge elettorale maggioritaria e la deriva verso il bipolarismo hanno separato i designati dai cittadini, hanno fatto perdere al parlamento la sua centralità ».
Bene, tutto ciò ci pare attuale e degno di essere discusso a fondo, anche dopo la fine di Berlusconi (che a volte ritorna..) e malgrado il governo tecnico. Che nasconde possibili insidie di commissariamento della politica. Ciò che invece manca nell’analisi di Rodotà , è qualcosa che pure si potrebbe agevolmente dedurre dalle sue stesse premesse: manca una critica più forte ai partiti personali. E soprattutto alla damnatio che v’è stata in Italia dei partiti di massa. Che significa? Significa che la distruzione dei partiti ha comportato la nascita di partiti notabilari. Di organismi personalistici e alimentati da logiche localistiche. E che all’ombra dei partiti personali e di opinione, discrezionalità  e corruzione sono più in agguato di prima. Ma c’è dell’altro: il deficit di democrazia, a beneficio del decisionismo e del «mercato politico». Già , perché senza partiti veri che esprimano leadership selezionate da conflitto regolato non c’è rappresentanza di interessi. Non c’è trasformazione degli interessi in valori generali. E infine non ci sono né partecipazione democratica, né classe politica di governo degna di questo nome. Ecco il punto: i partiti e il loro ruolo. Di essi (anche) andrebbe fatto l’elogio. E con foga almeno pari a quella che Rodotà  riserva al «moralismo» e all’ etica civile. Che senza partiti rischiano di restare pure grida manzoniane. Con rischio di antipolitica.


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