Riduzione delle emissioni e Africa possono attendere
DURBAN. A Durban si è sepolta per sempre l’idea che una soluzione alla questione dei cambiamenti climatici si possa trovare tra le mura di un centro congressi. Il negoziato si è chiuso domenica mattina, 36 ore dopo la scadenza prefissata, per portare a casa un risultato deludente, che svende l’Africa e i paesi più poveri agli interessi corporativi globali dietro a una promessa di accordo futuro quanto mai inconsistente.
La 17ma Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) verrà forse ricordata per aver trovato una soluzione in extremis per salvare un multilateralismo oramai solo di facciata. O forse per avere palesato le reali implicazioni di un accordo globale ambizioso, equo, e con obiettivi vincolanti che permettano di frenare l’innalzamento della temperatura globale sotto la soglia di rischio di 1,5 C, garantendo il necessario trasferimento di risorse ai Paesi poveri che soffrono gli impatti dei cambiamenti climatici senza avere contribuito a causarli.
Questi i termini minimi di un accordo accettabile, che i governi africani speravano si avvicinasse a Durban, in un eccesso di fiducia per il governo ospite della conferenza, quello sudafricano. L’esecutivo di Pretoria (come il Messico lo scorso anno) ha in realtà favorito dall’inizio l’agenda di Unione europea e Usa, al punto che il negoziato su alcuni temi – come l’agricoltura, centrale per i governi africani nel quadro delle misure di adattamento – non è mai iniziato, ma una proposta predefinita è stata comunque inclusa nel “pacchetto unico” uscito dagli incontri ristretti a cui hanno preso parte i ministri dell’ambiente durante la seconda settimana, seguendo un copione già testato nei due ultimi appuntamenti negoziali di Copenhagen e Cancun.
Così, mentre fin dai primi giorni i media internazionali puntavano il dito contro la Cina, da subito caricata della responsabilità di un eventuale fallimento del negoziato e accusavano l’India di essere poco costruttiva, i governi africani e gli altri governi dei G77 hanno iniziato i lavori a Durban costretti a fare muro contro tentativi più o meno espliciti di eliminare qualsiasi riferimento a obiettivi di riduzione vincolanti per le economie industrializzate. A partire dal Protocollo di Kyoto, unico accordo internazionale esistente a riguardo, bollato come “elemento del passato” dal negoziatore canadese Peter Kent già nel suo discorso di apertura della Conferenza. Una dichiarazione a cui ha fatto seguito una richiesta ufficiale di uscita dal Protocollo da parte del governo canadese, diffusa ieri dall’esecutivo di Ottawa al rientro della delegazione governativa dal Sudafrica. Anche Giappone e Russia hanno detto di non essere intenzionati a prendere parte al secondo periodo di implementazione di Kyoto, i cui target di riduzione si sarebbero dovuti definire proprio a Durban per permetterne l’operatività a partire dal 2012. Il negoziato si è chiuso invece con una sorta di dichiarazione di intenti, parte per l’appunto della “piattaforma di Durban”, a cui l’Unione europea ha lavorato da dietro le quinte fin dai primi giorni. Il tutto cavalcando l’onda degli ostruzionisti, così da difendere le misure del protocollo morente a cui è più affezionata: quelle che riguardano il mercato delle emissioni di carbonio, e la possibilità per le proprie imprese di continuare a realizzare progetti che garantiscono riduzioni di emissione che possono poi essere scambiate sul mercato interno (European Trading Scheme) e alle utilities e al settore finanziario la possibilità di speculare con transazioni over the counter su prodotti derivati collegati proprio al prezzo del carbonio.
Oltre a Kyoto, condannato a decadere è anche il piano di azioni definito tre anni fa a Bali, mirato a garantire un contenimento della temperatura del pianeta entro il grado e mezzo rispetto ai livelli del 1990. Piano firmato, ma poi boicottato nella pratica da Stati uniti e Unione europea, indicava i principi cardine del meccanismo finanziario che avrebbe dovuto permettere il trasferimento di risorse necessarie ai paesi in via di sviluppo. Il Fondo Verde per il clima, lanciato a Cancun, definito nel corso del 2011 e approvato a Durban, è niente più di una scatola vuota, che i governi sviluppati sono poco intenzionati a utilizzare se non per garantire gli investimenti delle grandi aziende e degli attori finanziari a cui è stato garantito l’accesso diretto ai fondi, in una logica finanziarizzata forgiata dalla Banca Mondiale che rischia di servire interessi speculativi e di profitto senza realizzare gli interventi di cui le popolazioni più povere hanno realmente bisogno. A partire dalle infrastrutture di base notoriamente poco redditizie e da quelle fondamentali per avviare una transizione verso un’economia sostenibile e a basse emissioni.
Purtroppo Durban si è chiusa con l’ennesimo posticipo, tra l’eco delle richieste non ascoltate delle comunità che vivono tra le raffinerie a sud di Durban, dei contadini e delle migliaia di donne che hanno attraversato il continente per portare le proprie richieste di equità e giustizia e delle centinaia di delegati che hanno occupato per tre ore i corridoi del centro congressi venerdì pomeriggio, reclamando uno spazio oramai sottratto a ogni forma di contestazione. Una protesta del tutto giustificata, visto l’esito del vertice.
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GRANDI OPERE
L’accusa più falsa che viene veicolata dal gigantesco network in mano ai poteri forti, riguarda la «perdita» di 670 milioni di finanziamento europeo per realizzare la grande opera causata dalla cecità dei movimenti. Pochi giorni fa su il manifesto, Marco Revelli ha ribadito la verità : se si accetta di prendere il modesto finanziamento si perderanno i 20 miliardi di euro necessari a costruire una elefantiaca e inutile grande opera.