by Sergio Segio | 22 Dicembre 2011 7:30
Tra pochi anni anche gli Stati Uniti ricorderanno i 150 anni della loro “rifondazione”. Il 19 aprile 1865 con la capitolazione in Virginia del generale sudista Robert Lee il nord industriale vinse la guerra, confermando in modo definitivo il valore dell’unità della nazione contro la secessione degli Stati del Sud e avviando una svolta politica e sociale della sua identità . Solo che quella svolta e quella unificazione statuale hanno coinciso con una improvvisa, accelerata mutazione dell’economia americana.
Dal 1865 in poi gli Stati Uniti hanno raggiunto primati di sviluppo produttivo, tecnologico, scientifico, hanno trasformato il loro destino quasi esclusivamente agricolo in un mondo governato dall’alta finanza, dalle industrie meccaniche, dal petrolio, dalle ferrovie, dall’avventura della conquista del Sud e del West (col genocidio degli indiani), dalle prodezze della speculazione edilizia. Contemporaneamente hanno messo in discussione o in crisi molti statuti della democrazia, cioè quel connotato particolare che, come aveva visto Tocqueville trenta anni prima, distingueva gli Stati Uniti dai sistemi politici della vecchia Europa. Seguire però con attenzione analitica e critica il dipanarsi di questo filo non è stato facile per la storiografia americana che nel secolo scorso ha visto schierati su fronti diversi coloro che dissentivano dai guasti provocati dal capitalismo ruggente e coloro che ne esaltavano le magnifiche sorti.
Tra i primi vi è certamente H. W. Brands, dell’Università del Texas, premio Pulitzer, che in questi mesi di crisi ha pensato di rileggere, anche con ironia, le ragioni più lontane dei problemi attuali. Ed ecco il recente e appassionante American Colossus. The Triumph of Capitalism.1865-1900, un volume di 686 pagine (Random House), dove i trentacinque anni che hanno portato gli Stati Uniti alle soglie del ‘900 sono studiati senza infingimenti ideologici. Basti leggere la prima parte intitolata “The rise of the Moguls”, i “mongoli”, i magnati Morgan, Rockefeller, Carnegie, Vanderbilt, Ford, col contorno di banche, aziende, compagnie ferroviarie e petrolifere, giornali, università , economisti, deputati, eccetera, e seguire, come fa Brands, le loro imprese e il dilatarsi delle loro frontiere geografiche, politiche e della autocelebrazione e esaltazione. Con conseguenze eccezionali sul piano della produzione e della ricchezza ma anche con crisi sociali e politiche della democrazia e con l’inizio del caos tipico di un capitalismo Colossus che riesce ad arricchire molti e a istupidire tutti.
Il capitolo “Gotham and Gomorah” (Gotham in slang è un luogo di sciocchi) documenta bene le cose. Che all’aprirsi dell’ultimo decennio dell’Ottocento erano divenute così complicate da richiedere la promulgazione nel 1890 dello Sherman Antitrust Act, primo tentativo del governo di riprendere il controllo politico delle regole e di tentare di imporle ai “magnati” con gli strumenti della legalità e dei principi costituzionali. In quei mitici trentacinque anni sono nate le grandi città moderne americane con tutte le meraviglie possibili regalate dall’elettricità , la chimica, le acciaierie: treni sopraelevati, tram, illuminazione, ascensori, telefoni, grandi magazzini, scale mobili, il tutto mescolato a quartieri miserabili, inquinati, pieni di cinesi, di italiani, di irlandesi. Brands racconta tutto ma al suo racconto vorrei aggiungere le testimonianze di due scrittori europei che proprio a fine secolo decisero di vedere quanto stava accadendo in America. Uno era Giuseppe Giacosa che, passeggiando a New York nel 1898, si espresse così: «È impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l’umidità fetente, il disordine di quelle strade». L’altro Rudyard Kipling che, dopo una visita a Chicago, si espresse con più leggerezza: «Dopo aver visto la città non sento alcun pressante bisogno di rivederla».
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