“Lui intellettuale, io leader operaio insieme rovesciammo il comunismo”

by Editore | 24 Dicembre 2011 8:29

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PRAGA – «Addio, caro Vaclav, eri un ragazzo straordinario. Tu grande intellettuale, io leader operaio, ci capimmo a distanza lottando insieme per la libertà  in quegli anni duri. Noi vincemmo per primi, ma se non aveste vinto anche voi a Praga grazie a te noi polacchi saremmo restati soli e avrebbero potuto schiacciarci. Lasci un vuoto, ci mancherai». Lech Walesa ricorda commosso il compagno di lotta. La memoria del leader della rivoluzione polacca, poi presidente e premio Nobel per la pace, corre in un flashback alla guerra fredda, quando Solidarnosc e Charta 77 agivano insieme. 
Presidente, come ricorda Havel come persona?
«Mi piaceva molto, mi piacque subito. Era un grande, un ragazzo straordinario. Provai subito rispetto per lui, per chi era come uomo e per quel che seppe compiere. Ebbe una vita dura ma seppe sempre essere un uomo delizioso, gentile, gradevole e insieme molto saggio. Venivamo dalla stessa generazione, quella generazione che ora pian piano sta passando la staffetta ai giovani, ed esce di scena. Lo abbiamo perduto, è una perdita incolmabile». 
Come vi coordinavate, negli anni della lotta clandestina?
«Non era facile. Era un altro mondo, senza internet e senza telefonini. Ci contattavamo con emissari, che s’incontravano nelle zone di montagna al confine. Fu un’intesa importante, per noi e non solo per loro». 
In che senso?
«È vero che i cechi non avrebbero mai vinto se non avessimo prima vinto noi nel 1989, ma c’è un’altra cosa da dire. Cioè che se la “rivoluzione di velluto” cecoslovacca non avesse poi vinto a sua volta, e se il comunismo fosse caduto solo in Polonia, noi polacchi saremmo rimasti soli. E avrebbero potuto “pacificarci”. Noi cominciammo, ma fu grazie a Havel, al nostro fianco contro un regime molto duro, che la svolta divenne rovesciamento del comunismo, e rompemmo i denti all’orso in tutto l’allora Patto di Varsavia». 
Lei leader operaio, lui intellettuale. Come vi capivate?
«Certo, Havel era una grande penna coraggiosa, io guidavo gli operai. Havel era un teorico, un ottimo teorico, non un grande organizzatore. Lottava con le parole e la penna, pagando di persona. Ma era un uomo del Verbo, il cui Verbo spingeva altri a organizzarsi. E negli anni duri seppe circondarsi dei collaboratori giusti, seppe formare il team giusto di saggi. Non è finita: senza un’alleanza tra lavoratori e intellettuali, non sarebbe cambiato nulla qui in questa parte d’Europa. Se noi lavoratori non fossimo riusciti a saldare un’alleanza con gli intellettuali, il regime ci avrebbe facilmente “pacificato” e messo a tacere, in un modo o nell’altro. Invece andammo in piazza e lottammo, operai e intellettuali insieme. E dopo, quando lui divenne presidente, le sue grandi qualità  di teorico della libertà  e di una democrazia pulita divennero ancora più importanti».
Il comunismo è sconfitto, l’autoritarismo no: quanto sono pericolose le politiche di Putin a Mosca, o di Orban a Budapest?
«Separerei le due realtà  che lei cita ad esempio. Putin cerca di portare avanti la sua ricetta centralista-autoritaria di modernizzazione. Orban si affida alla demagogia, e davvero non penso che Orban e le sue idee andranno nella direzione giusta». 
L’Europa che dice addio a Havel è abbastanza unita o no?
«L’Europa doveva e deve unirsi, ma ci mancano programmi e strutture. Proprio ora, davanti alle sfide del presente e della globalizzazione, ci servono grandi teorici. Havel era grande anche in questi dibattiti, le sue parole si traducevano in realtà . È una grande perdita incolmabile, anche pensando al presente. Anche mentre generazioni come quella mia e sua, cresciute nel dopoguerra e con la memoria della lotta contro nazismo e stalinismo, cedono lentamente il posto ai giovani. Giovani che vogliono costruire il futuro insieme a tedeschi e russi, giovani a cui i senior come Vaclav o me portarono la libertà ». 
(ha collaborato Jan Gebert)

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