Jonathan Lethem “Ecco perché metto i fumetti accanto a Kafka e Calvino”

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 NEW YORK Tra i romanzieri americani contemporanei, Jonathan Lethem è forse quello che riconosce con maggiore entusiasmo di subire l’influenza della cultura popolare, e rivendica di non fare distinzioni tra highbrow e lowbrow, “alto” e “basso” L’approccio traspare evidente in tutti i suoi libri, a cominciare dalla Fortezza della solitudine, romanzo che prende il titolo dal luogo in cui si ritira Superman nei momenti di malinconia. Da un anno ha abbandonato quella Brooklyn che è al centro di quasi tutti i suoi scritti per trasferirsi in California, dove insegna al corso di scrittura creativa che era tenuto da David Foster Wallace, forse l’autore che ha amato e analizzato con maggiore acume la cultura popolare. E in queste settimane Lethem ha dato alle stampe The Ecstasy of influence, una raccolta di saggi nella quale analizza appunto fumetti, film, band musicali e scrittori che lo hanno più influenzato e dove si mescolano personalità  notissime ad altre sconosciute, idoli culturali con autori dimenticati o trascurati dalla critica. Il libro, che nel titolo evoca L’anatomia dell’influenza di Harold Bloom, parte dal concetto che tutta la cultura recente si fonda su ascendenze non necessariamente nobili: è il talento del singolo artista che poi determina se si riesce o meno a essere sinceri e originali. I saggi si soffermano su John Cassavetes e Philip K. Dick, gruppi musicali di culto come i Go-Between e critici come Manny Farber, accomunati quasi tutti dal fatto di essere scomparsi. «Molti dei miei eroi, sono completamente o in parte fuori catalogo» racconta Lethem, spiegando che l’autore che ama con maggiore passione, Norman Mailer, «è famosissimo, quindi fa eccezione. Ma ha un posto nel mio Pantheon per tutte le cose che abbiamo in comune: come me era di Brooklyn, amava i graffiti, i film underground, la marijuana e i viaggi nello spazio». 
E invece secondo lei quali sono i libri più interessanti di questo ultimo anno?
«Consiglio a tutti Ghost lights di Lydia Millet: ha confermato di essere un’autrice veramente notevole e capisco perché molti la paragonano a Coetzee. Ma in questo momento sto rileggendo i classici che insegno all’università : Kafka, Calvino e Thomas Hardy. Secondo me Via dalla pazza folla è un libro da leggere e rileggere». 
Lei sostiene anche che Thomas Berger, l’autore del Piccolo grande uomo, sia tra i più grandi autori contemporanei.
«Ne sono convinto: è uno scrittore capace di affrontare al meglio tutti i generi, dal noir alla satira, al postmoderno. E ha il raro dono di saper scrivere per allegorie. Riesce a essere realista anche se si avventura nel fantastico. Aggiungo che è uno degli ultimi romanzieri viventi che abbia combattuto nella seconda guerra mondiale, e questa esperienza si fa sempre sentire nella sua scrittura».
Nel suo libro di saggi lei polemizza direttamente con i recensori che hanno scritto dei suoi romanzi.
«Molti ne sono rimasti stupiti e sconcertati, quasi fosse qualcosa di immorale. Io credo che si confonda la prassi, o la prudenza, con l’unico atteggiamento legittimo. Invece se un critico, anche del livello di James Wood, dice qualcosa che non mi convince io ho il diritto di prendere posizione pubblicamente, tanto più se questo atto può costarmi qualcosa». 
Cosa risponde a John Leonard, che sulla New York Review of Books ha scritto “è ora che questo scrittore di talento metta da parte per sempre i fumetti?”.
«Che li ho messi da parte milioni di volte: in queste critiche risuona quello snobismo di fondo che impedisce anche a persone colte e intelligenti di comprendere il valore di ogni forma di espressione artistica». 
Cosa ama in particolare nei fumetti?
«Sono una forma di narrazione molto più complessa di quello che può apparire, che costringe il lettore ad un’attività  articolata e autonoma nel passaggio dalle immagini alle parole. Ed è questo il motivo per cui i film tratti dai fumetti sono sempre deludenti».
In che cosa i fumetti ispirano il suo lavoro di scrittore? 
«Cerco di ottenere con la scrittura quella che è una delle caratteristiche principali delle storie disegnate: la capacità  di essere allegorici ed emblematici». 
Lei ironizza a proposito della copertina dedicata da Time a Jonathan Franzen. Lo paragona a Chance il giardiniere, il personaggio di Oltre il giardino.
«Ho paragonato il rapporto con la celebrità  di Franzen alla vicenda di Chance. Per quell’atteggiamento di sincerità  ad ogni costo, per la difficoltà  di trovarsi in una situazione di enorme popolarità . Penso al quel destino, che in buona parte ha costruito con le proprie mani». 
Lei ha studiato al Bennington College insieme a Donna Tartt e si chiede se alcuni episodi raccontati dalla scrittrice in Dio di Illusioni, siano ispirati da una litigata che avvenne in quel periodo.
«Anche questo ha a che fare con l’esplosione improvvisa di un’enorme popolarità . Con noi c’era anche Bret Easton Ellis, e eravamo tre studenti sconosciuti, fin quando ho visto i due amici diventare star. Mi viene in mente quello che può essere successo a un musicista del Greenwich Village nel 1962 che vede un amico squattrinato, con il quale divideva tutto, che all’improvviso diventa Bob Dylan». 
È rimasto amico di entrambi?
«Direi di sì, e con Bret sono legato anche da un ricordo indelebile: la mattina dell’undici settembre del 2001 abbiamo dormito nello stesso appartamento a New York, e non ci siamo accorti di nulla fino a tardi, perché eravamo sotto gli effetti di una sbornia»


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