“Così ho visto piangere Einaudi vi svelo i segreti del grande editore”

by Editore | 29 Dicembre 2011 3:02

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TORINO – I suoi silenzi sono leggendari, come la divisa che indossa da decenni, pantaloni antracite e polo nera. Conventuale nei modi e nella concezione del lavoro, Roberto Cerati è l’inventore del “pubblico Einaudi”. Un mito per i librai e per le persone che sanno. Cominciò a Milano, nel 1945, per caso. «Accompagnavo Ajmone che doveva mostrare a Einaudi dei lavori di incisione per Lavorare stanca di Pavese. In corridoio Giulio mi disse “Lei che fa?”. “Niente”. “Allora venga qui”». Prima strillone del Politecnico, poi venditore di libri, infine direttore commerciale al fianco del principe Giulio. Un’eminenza grigia, custode dei segreti di via Biancamano, annotati con la sua antica grafia minuta e ordinata. Per più di trent’anni, ogni settimana, ha mandato all’editore le sue note di lavoro, ricevendone indietro appunti scritti a mano. «Conosco così bene Cerati», disse una volta Einaudi, «che anche se sta zitto indovino qual è il suo pensiero». Un matrimonio lungo mezzo secolo, che ora Cerati – attuale presidente dello Struzzo – ci racconta alla sua maniera. 
Cent’anni fa nasceva Giulio Einaudi. Con quale stato d’animo s’appresta a festeggiare l’anniversario? 
«Spero solo che non abbia toni retorici, Einaudi li detestava. Era una persona di naturale fascino, ma ha offerto di sé troppe immagini che sono diventate stereotipi. Eccentricità , screzi, umori, piccola cronaca. Quello non è Giulio Einaudi, ma solo come appariva a chi gli stava intorno. O meglio una difesa che lui opponeva perché gli altri non entrassero nel suo privato».
Sta dicendo che era un timido?
«Sì, era come mosso da un istinto cautelativo. Non amava manifestare i propri sentimenti, né che alcuno li provocasse. Credo di essere stato tra i pochi che l’ha visto piangere, e non capitava di rado».
In quale occasione?
«Ai funerali di Arnoldo Mondadori, ma finsi di non accorgermene. Così come quando – al principio della crisi della casa editrice – ci trovammo a passeggiare in collina prima di colazione. Si fermò e mi disse: più vendiamo e più perdiamo, non so fino a quando resisteremo. Piangeva, ma era come se mi chiedesse di non vedere».
C’era intimità  tra voi.
«Con me si lasciava andare alle emozioni, forse perché mi sforzavo di capire cosa c’era sotto. Einaudi era per la conoscenza indiretta: tu capisci, io capisco, basta così. Entrambi molto schivi».
Fruttero e Lucentini scrissero che gli stavano sinceramente a cuore le sventure degli altri, “sempre che fossero collettive e lontane”. Un ritratto feroce.
«Voleva la distanza tra sé e le cose che più lo toccavano. E come avvertiva venir meno la distanza si turbava».
Era distante anche nei modi?
«Non ti metteva mai una mano sulla spalla, ma se doveva attraversare la strada ti prendeva per il braccio». 
Per rassicurare o sentirsi rassicurato?
«Per sentirsi sicuro. Però nell’interlocutore non cercava la sicurezza ma la coscienza del fare. “Provo” è la sola parola che Einaudi amava sentirsi dire. Se esposto un problema, ti avventuravi a dirgli “E adesso cosa devo fare?”, la sua risposta era “Arrangiati”. Ma era un “arrangiarsi” relativo, perché poi lui verificava costantemente quel che facevi. Mi fido, ma controllo».
Concreto.
«Sì, fondamentalmente un contadino. Ma questa dimensione è stata spesso sottovalutata».
Era un borghese, figlio del presidente della Repubblica e d’una aristocratica.
«Era il figlio di suo padre, ma con l’eleganza della madre. Erano persone con un forte senso della concretezza. Anche la libertà  vigilata che ci concedeva rientra in questa filosofia. Quando si parlava di un libro, durante le riunioni del mercoledì, lui lasciava che la discussione fosse libera. Io ero stato ammesso, ma a una condizione».
Quale?
«Che rimanessi zitto. “Tu vieni e stai là , ma se ti fanno domande su quanto venderà  un libro guardati dal rispondere”. Poi però veniva il seguito».
Il seguito del mitico mercoledì?
«Sì, il più prosaico lunedì. I titoli scelti la settimana precedente venivano sottoposti a un secondo esame a cui erano ammessi Giulio Bollati, Guido Davico Bonino, Daniele Ponchiroli, Oreste Molina e io. Era lì che ogni libro veniva pesato: in quale collana collocarlo, a che prezzo, con quale tiratura. Era un lavoro a cui teneva immensamente, che testimonia la sua natura double-face. Grande liberalità  il mercoledì e grande concretezza il lunedì».
Come nasceva il piano editoriale?
«I mesi erano considerati alla stregua di canne d’organo. “Come suonano?”, chiedeva Einaudi. Non aveva il demone della novità  a tutti i costi. I suoi libri dovevano “nascere vecchi”, fatti per durare».
È stato accusato di megalomania. Anche di recente Gianarturo Ferrari l’ha definito il “Fitzcarraldo del libro”.
«Non sanno cosa dicono. Il megalomane è ignaro delle conseguenze dei propri gesti, Einaudi dovette rinunciare a libri a cui teneva molto. Rifiutò Nietzsche non per ragioni ideologiche ma perché costava troppo. Lo stesso per l’Epistolario di Saba. Così lo vidi soffrire quando dovette congedarsi dalle Edizioni Scientifiche Einaudi passate a Boringhieri».
Però negli anni Ottanta la casa editrice è andata incontro a un fallimento.
«Le difficoltà  sono nate quando il denaro ha cominciato a subire un’impennata. Il costo era arrivato al 18-20 % di interesse. In quei passaggi lo ricordo scostante, ma ne aveva ben motivo».
Molti attribuiscono la crisi alle grandi opere.
«No, non furono quelle. La crisi fu dovuta agli interessi bancari».
Giulio Bollati – lo riferisce Luisa Mangoni – attribuì la crisi non tanto alle grandi opere ma al modo in cui furono attuate e, nel caso dell’Enciclopedia, all’autonomia eccessiva di Ruggiero Romano.
«Ognuno che entrava qui dentro aveva l’ambizione di essere il primo nel cuore dell’editore. Bollati si vide arrivare Romano con l’aura dell’Ècole Normale, di Braudel e tutto il resto. Inevitabile un po’ di gelosia».
Anche tra lei e Bollati ci fu un po’ di maretta.
«Io non ero uno stinco di santo. Volevo vedere le copertine, insomma dire la mia. E come dissi a Einaudi che quella di Ferdydurke, il romanzo di Gombrowicz, era sbagliata, lui che forse la pensava come me trovò il modo di creare uno screzio».
Lo faceva spesso?
«Sì, era una specie di Giamburrasca, gli piaceva farci litigare. Poi chiudeva il teatrino con esibita magnanimità : ma ora basta, andiamo a colazione. E anche a tavola si facevano discorsi di grande importanza».
Con Bollati il rapporto fu molto burrascoso. 
«Ebbe sempre un’alta stima della sua direzione editoriale. Il giorno in cui corsero tensioni di dimissioni, Einaudi mi disse: Giulio è fatto come è fatto, ma qui dentro è l’unico che può fare l’editore. Diglielo».
E infatti lui lo fece per conto proprio.
«Sì. Bollati se ne andò, acquisendo il marchio Boringhieri grazie alla sorella Romilda. E Giulio non gliel’ha perdonato. Non voleva perdere quello che aveva creato di buono. Aveva una concezione familista della casa editrice, da grande patriarca. E i patriarchi possono diventare feroci».
Con lei lo è mai stato?
«No, io ho sempre cercato di capire da cosa venivano le sue sferzanti ironie. Certo, non sono mancati momenti di disagio. A cena da “Simone” mi chiese una volta di parlargli di un libro appena uscito, il Capitano Smith di Henriquez. Farfugliai. “Non l’hai letto”, mi liquidò. Mi sarei sprofondato. Era presente Pavese che l’aveva tradotto. Mi alzai ed uscii. Però tempo dopo mi sarei preso una piccola rivincita».
Quale?
«Avevamo pubblicato Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. Tiratura 1.500 copie, confidando più negli iscritti all’Anpi che nei librai. Avuta la copia pilota, la lessi nella notte. Il giorno dopo chiesi un’immediata ristampa di 2.000 copie. Mi disse di sì».
Quelli erano gli anni della maggiore vicinanza al Pci. Nel 1953, in morte di Stalin, uscì sul Notiziario Einaudi un articolo celebrativo a firma di Antonio Giolitti. Lei cosa ricorda?
«In casa editrice c’erano molte divisioni. E tra i mugugni di Franco Venturi e l’ortodossia di Giolitti, io ero più vicino a Giolitti, anche se dopo i fatti d’Ungheria il clima cambiò. Einaudi era fondamentalmente un laico liberale, che teneva insieme spezzoni di culture differenti. Non è un caso che, ricevendo a Torino la seconda laurea honoris causa, volle dedicare la prolusione a Gobetti editore». 
Ma lei come interpreta il filosovietismo di quegli anni?
«È difficile giudicare quel che accadeva allora. Stalin era quella roba lì, il laudatore dell’uomo semplice (ndr Cerati indica uno scritto di Stalin appeso alla parete della sua stanza, mezzo nascosto da un grande ficus). Certo, poi ci sono state cattiverie grandissime… Però inviterei a cautela chi vuole identificare il crocevia delle idee portate avanti da Einaudi con una dipendenza o un dipartimento di Botteghe Oscure. Posso solo dire che i C. D. S (Centro Diffusione Stampa) delle federazioni del Pci furono negli anni Cinquanta altrettante librerie che visitavo. Era un filone di mercato sensibile ai nostri libri».
Sta dicendo che nel rapporto con il Pci interveniva un elemento mercantile oltre che di condivisione politico-culturale?
«I nostri lettori e gli elettori del Pci spesso coincidevano. E allora le librerie – non diversamente da oggi – erano aperte prevalentemente al libro che si vendeva di più. La nostra penetrazione in libreria fu lunga e possibile solo identificando ovunque il libraio che ti era più congeniale».
Mai avuto problemi?
«”Lei che vuole?”, mi chiese nel ‘47 un libraio di Bergamo. “Vorrei parlare delle novità  Einaudi”. “Comunisti, fuori di qui!”. Col tempo arrivò ben altra accoglienza».
Le “settimane Einaudi” erano anche manifestazioni politiche di rilievo. Racconta Einaudi a Severino Cesari che fu lei, Cerati, a ricondurle a una dimensione commerciale.
«Era un momento di grande promozione, generalmente a luglio, per una decina di giorni. Gli autori della Casa facevano visita ai librai delle città . Elio Vittorini al Nord, Carlo Levi al centro, Italo Calvino a Sud fino alla Puglia».
E come se la cavavano da “venditori”?
«Elio solare e potente, Levi un pontefice e Calvino molto conviviale, tanto da superare la sua balbuzie. Qualche volta veniva con noi Monica Vitti, bella e spiritosa». 
In casa editrice le donne erano pochissime.
«Natalia, certo. Non dico che fossimo maschilisti, ma forse un po’ sì. Giulio con loro era tra il timido e il provocatorio. Comunque le teneva a distanza».
Si dice che Einaudi fosse di scarsa cultura. 
«La cultura di Einaudi era certamente fragile. Iscritto a medicina non arrivò alla laurea, ma il fiuto era grande, e il sapere di ascolto finissimo. Quando l’Università  di Trento gli conferì nel 1997 la laurea, ricordo la battuta: oggi mi laureano. Attenzione, non disse: oggi mi laureo. C’era qualcosa di subliminale nella battuta».
Cosa vorrebbe dirgli oggi?
«Mi ha aiutato a crescere, ma lasciando che rimanessi me stesso. La grande difficoltà  nei rapporti è la tendenza a divorare l’altro. Tra noi non è accaduto. E non smetto di essergliene grato».

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