by Editore | 30 Dicembre 2011 7:08
“Questo centocinquantesimo ha avuto l’effetto di dare la sve glia agli italiani, invitandoli a guardarsi dentro”, dice Giuliano Amato, presidente del comitato artefice delle celebrazioni. “Ci siamo accorti di esserci persi, senza più bussole né futuro. Da qui la necessità e l’urgenza di resettare l’Italia, proprio per restituirle una prospettiva”.
Nell’intera vicenda nazionale unitaria, il nostro rischia di essere l’anniversario più accidentato e imprevedibile. Non era mai accaduto che nel corso dei festeggiamenti unitari una parte del governo invocasse la secessione, né che l’importante compleanno coincidesse con il lento scivolare del paese alla periferia del mondo, mortificato dai suoi rappresentanti e sbeffeggiato sul piano internazionale. Le premesse non erano incoraggianti. E, forse per questo, un’imprevista fiammata tricolore ha pervaso la comunità nazionale e l’opinione pubblica colta, unite nello sventolare la bandiera. Un’enfasi patriottica poi sfociata nel mutamento della scena politica. «Monti figlio del centocinquantesimo? Sicuramente c’è una simmetria tra gli umori degli italiani e l’avvicendamento a Palazzo Chigi».
Presidente Amato, cosa ha scoperto dell’Italia che l’ha sorpresa?
«Un paese che ritrova le radici, dimenticate o forse mai cercate. Moltissimi comuni, anche i più piccoli, si sono messi sulle tracce del patriota locale o del passaggio dell’eroe nazionale. E tanti italiani hanno scoperto chi erano i loro bisnonni. Non era scontato per una comunità ammalata di “presentismo”».
Lei sta dicendo che abbiamo ritrovato una coscienza storica?
«Sì, ma non solo. Il nostro è un paese con il complesso di Calimero. Quando ci voltiamo indietro, spesso vediamo sofferenze e umiliazioni. E, come ha già rilevato il presidente Napolitano, questa è stata un’occasione per scoprire una storia diversa, da cui trarre motivo d’orgoglio».
Ma forse non è nel passato che abbiamo visto ragioni di sconforto, piuttosto nel presente di un paese mortificato.
«Sicuramente la comunità nazionale ha percepito il bisogno di essere vista e letta con la dignità che la sua storia richiede, mossa da una forte preoccupazione per l’oggi. Tra i meriti di questo centocinquantesimo è la mobilitazione dell’Italia colta, che ha trovato un’eco inusuale per i propri studi. Penso soprattutto a una bellissima ricerca condotta da Giovanni Vecchi sul benessere degli italiani».
Vecchi mostra come il benessere non è per sempre.
«Nel corso di un secolo mezzo di storia nazionale, l’analfabetismo è stato quasi del tutto sconfitto e il reddito è cresciuto mediamente tredici volte. Ma la storia insegna che dalla crescita si può passare al declino. E che l’Italia che prese a crescere all’indomani dell’Unità era lo stesso paese divenuto fanalino di coda in Europa dopo essere stato la superpotenza delle repubbliche marinare. E allora i sintomi del 2011 – letti in questa prospettiva storica – sono stati colti come segnali d’allarme. Non è che stiamo tornando neri neri come Calimero, anche se c’è qualcuno che ci dice che siamo in technicolor?».
La stessa ricerca però ci dice che gli italiani fanno fatica a percepirsi poveri. Poveri sono sempre gli altri.
«Non sarei così sicuro. Certo, che noi rischiamo il declino lo si comprende meglio ora: il nuovo governo è stato costretto a enfatizzarlo proprio per fermarlo».
C’è una relazione tra lo scatto patriottico della comunità nazionale e il cambiamento politico?
«In un certo senso sì. Le riflessioni suscitate dal centocinquantesimo hanno concorso a scuoterci dal torpore. È come se ci fossimo posti la domanda: ma questi che fecero il Risorgimento l’avrebbero mai fatto se non avessero pensato che vale la pena di sacrificare un po’ di presente per il futuro? La parola sacrificio, solo in funzione del presente e spogliata del futuro, è priva di significato».
Sta dicendo che, tornando indietro al Risorgimento, abbiamo recuperato l’idea di futuro?
«Proprio così. Nel mettere insieme gli italiani, ai fini dell’unificazione, il progetto di futuro ebbe un ruolo fondamentale. Il nostro problema, nell’anno delle celebrazioni, è stato la totale mancanza di prospettiva. Eravamo immersi in un presente dipinto a colori al di là del quale c’era un futuro sempre più burrascoso, ma non visto. E gli esaltatori dell’Italia come paese delle diversità incompatibili hanno giocato proprio sul presente, sulla non percepibilità del futuro comune».
Allude alla predicazione secessionista della Lega?
«Tra una comunità nazionale e una coppia non c’è molta differenza. La coppia con problemi, se sta puntando al divorzio, nel passato legge solo fattori di divisione. Se invece guarda al futuro comune, alle spalle trova le ragioni dello stare insieme. Ora siamo stati richiamati alla realtà ».
Non solo dalle celebrazioni…
«Certo, anche dallo spread, che ha colpito i titoli pubblici e le imprese, le banche e Mediaset. E quel punto è parso a tutti – anche al precedente presidente del Consiglio – che era il caso di resettare l’Italia. E quando si deve resettare il computer si chiama sempre il tecnico».
Lei ha rischiato di essere coinvolto nel “resettaggio”.
«Un momento. Quanto a curriculum accademico potrei sfidare tutti quanti, ma sono contaminato dalla politica fin da ragazzo, e dunque poco credibile come tecnico».
Il Pd non le ha mostrato molta benevolenza, dicendo: “Non è dei nostri”.
«Ma figuriamoci. Io sono socio fondatore. Scherzando ho detto ai miei amici del Pd che potevo mandarli davanti ai probiviri per disconoscimento di iscritto fondatore. In realtà non volevano che stesse al governo uno dei loro rappresentanti. Il desiderio del Pd era che a resettare il computer fossero solo dei tecnici. Nel farlo si possono cancellare file che sono carissimi a qualcuno».
Tornando al centocinquantesimo, ci sono state interpretazioni del Risorgimento che l’hanno colpita?
«L’ho detto anche al presidente Napolitano: hai fatto un grande lavoro, suggerendo agli storici una lettura dell’unità nazionale in cui tutti furono coessenziali, da Mazzini a Garibaldi, da Cavour a Vittorio Emanuele II, e quindi ponendo fine all’antico dilemma tra l’Italia che c’è – bruttina – e l’altra Italia molto più bella – la mia – che non si è mai concretizzata. Ci si è resi conto che l’Italia realizzata fu l’unica possibile».
Quel che ha sorpreso è il trionfo “neorisorgimentista” nell’intera Italia colta: sia a sinistra – tradizionalmente condizionata dalla lettura gramsciana, e comunque estranea all’enfasi patriottica – sia nella zona “neorevisionista” che negli anni Novanta celebrava processi contro il Risorgimento.
«Se si daranno dei premi per il successo delle celebrazioni, non ho dubbi sulla palma d’oro: la Lega. Ha funzionato la dinamica del contrappasso. Di fronte allo Stato vilipeso c’è stata una reazione comune. Un tempo furoreggiava Mack Smith, che faceva di Cavour la personificazione del machiavellismo deteriore degli italiani. Poi ci si è accorti che questa autoflagellazione contribuisce a distruggere l’edificio nazionale».
Non tutti hanno condiviso questa retorica patriottica. Lo storico Alberto Banti ha messo in guardia i democratici dall’abusare di termini come “patria” e “nazione”.
«Non vedo questo rischio. Il sentimento nazionale di una nazione fatta da diversi – quale noi siamo – non può che essere aperto, “aetnico”. Certo, la retorica patriottica tira fuori le nozioni di “stirpe” e di “sangue comune”, che rimangono come un virus bisognoso di un antidoto. Noi abbiamo conosciuto una fase storica in cui il virus ha dilagato. E non c’è dubbio che oggi il localismo ostile agli immigrati ha dentro di sé lo stesso virus».
Il sentimento nazionale “aperto” è stato testimoniato dallo stesso presidente Napolitano, propugnatore di una cittadinanza italiana allargata ai figli degli immigrati.
«Napolitano difende certamente un’idea aperta di nazione, nella quale risulta come distonica una cittadinanza fondata più sullo ius sanguinis che sullo ius soli».
Gli storici del futuro come leggeranno questo centocinquantesimo rispetto ai precedenti cinquantenari?
«Sono state celebrazioni assai poco celebrative. Non c’è stata la retorica patriottarda che annulla le ombre della storia nazionale né l’esaltazione di un’Italia vincente quale il paese del boom. Abbiamo guardato dentro noi stessi, trovando le ragioni di una riscossa civile. E forse la grande occasione per l’Italia è riflettere sui fini verso i quali orientare ciò che facciamo, risparmiando su che cosa e investendo su che cosa. Ho l’impressione che, i fini, non li abbiamo ancora trovati».
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