by Editore | 24 Dicembre 2011 7:46
MILANO — Un salto indietro, ai dati peggiori di 15 anni fa. Dall’Istat arriva l’allarme sulla perdita di potere d’acquisto degli italiani: con un’inflazione salita al 3,3%, e il livello delle retribuzioni fermo rispetto a ottobre (e in aumento solo dell’1,5% nel confronto con un anno fa), la forbice tra carovita e buste paga si è allargata, toccando una differenza dell’1,8%. Per rivedere un simile divario, bisogna tornare indietro al 1996.
La fotografia fatta dall’istituto di statistica è impietosa. Anche se certifica ufficialmente il disagio che quotidianamente gli italiani si vedono costretti ad affrontare, con stipendi che non crescono e un costo della vita che, al contrario, continua a correre.
Nel raffronto con un anno fa dei prezzi dei principali prodotti di consumo, i numeri parlano fin troppo chiaro: zucchero e caffè sono aumentati (dati Istat) rispettivamente del 17,2% e del 16,5%, la benzina del 16,6%, il gasolio da riscaldamento del 18,1%. Ma anche generi alimentari di prima necessità , come riso, burro e formaggi, a novembre hanno fatto registrare una variazione annua all’insù, rispettivamente, del 6%, 6,8% e 5,1%.
Stretti nella morsa fatta di tasse e inflazione, il 2011 si preannuncia un anno nero per i redditi. Che non potrà che farci perdere ulteriore terreno nei confronti internazionali.
Del resto, l’Ocse, l’organizzazione dei Paesi più industrializzati, nel suo ultimo rapporto aveva già messo in risalto il crescente differenziale con gli altri Paesi, collocando l’Italia al 22esimo posto, su 34, nella classifica dei salari netti: 22.155 dollari per il lavoratore italiano (utilizzando i dati 2010), mille in meno rispetto alla media Ocse e quasi 4 mila in meno della media Ue a 15. E tra i Paesi del G7 l’Italia occupa comunque l’ultima posizione per livello di salario netto.
Tutto questo è la conseguenza di una situazione denunciata anche dalla Banca d’Italia nell’ultima relazione annuale: «Nel settore privato tra il 1996 e il 2010 le retribuzioni reali di fatto per unità di lavoro sono aumentate dello 0,7%, quelle contrattuali dello 0,4%». Risultato: quest’anno, secondo le stime dell’Ufficio studi Ires-Cgil, il valore reale di uno stipendio medio sarà inferiore di 566 euro (260 euro per il potere d’acquisto perso rispetto all’inflazione, sommati a 306 euro assorbiti dal fiscal drag).
Sul fronte contrattuale le prospettive non incoraggiano grande ottimismo. In mancanza di novità significative (e con i contratti congelati per i tre milioni di dipendenti della pubblica amministrazione), la crescita delle retribuzioni appare destinata a fermarsi all’1,8%, presentando un bilancio annuo che potrebbe risultare tra i peggiori da più di un decennio (mentre la crescita acquisita dei prezzi per l’intero 2011 è ben superiore, pari al 2,7%). Lo scarto tra salari e prezzi accumulato nei 12 mesi potrebbe quindi riservare altri picchi negativi.
Anche il sondaggio, condotto, sempre dall’Istat, sul clima di fiducia dei consumatori, registra un crollo, con l’indice che è scivolato da 96,1 a 91,6: un’avanzata di pessimismo che non si registrava, anche in questo caso dal lontano 1996. A preoccupare gli italiani sono le condizioni generali dell’economia, in particolare le aspettative negative sulle possibilità di risparmio, con i timori di prezzi in crescita.
Una situazione, insomma, che non sembra lasciare molte vie di scampo: i rischi di recessione si fanno sempre più concreti e tangibili.
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