by Editore | 24 Dicembre 2011 9:19
Ieri la città di Praga, sintesi con la sua storia degli splendori e delle tragedie della Mitteleuropa ma anche delle contraddizioni della società contemporanea, ha dato l’ultimo saluto al drammaturgo e allo statista che per oltre due decenni ha rappresentato il suo figlio più illustre ed è stato un protagonista della vita internazionale.
Nella conclusione dell’intervista che apparve il 22 agosto 2010 su la Repubblica, Và¡clav Havel alla domanda: «Ma per che cosa vorrebbe essere ricordato?» rispondeva: «Come politico devo dire che sono l’unico presidente della nostra storia a non essere andato via con ignominia. La cosa mi piace». Ma a chi poteva riferirsi Havel con quella affermazione così trionfale? Certamente non a Edvard Benes, che riuscì a portare la Cecoslovacchia, tradita a Monaco nel 1938 da un vile diktat, a sedere tra i vincitori della II Guerra mondiale e da Havel stesso definito «il nostro De Gaulle». Tanto meno egli poteva pensare a Tomà¡s Garrigue Masaryk, una delle figure più luminose della democrazia europea, rieletto negli anni ’30 per la quarta volta alla massima carica dello Stato e proclamato «Presidente Liberatore», da lui stesso sempre richiamato come un Maestro. Probabilmente si riferiva ai suoi predecessori comunisti, primo fra tutti Gustà¡v Husà¡k, ma ingenerava l’idea di un Paese (la Cecoslovacchia) disgraziato, spesso definito «artificiale» (ma quali sono gli Stati «naturali»?) e redento solo dalla sua figura.
Indubbiamente il suo primo discorso di Capodanno lanciava un messaggio ricco di suggestioni e proponeva una sfida audace e generosa, nella quale al di là dei dovuti richiami a Masaryk, sembrava vibrare un afflato kennedyano. Ovviamente la morale era messa al centro della sua azione politica, ma soprattutto rivendicava l’esigenza inderogabile di fare della politica, non solo l’arte del possibile, ma come il suo Maestro gli aveva insegnato, «l’arte dell’impossibile» in modo che essa contribuisse a «migliorare noi stessi e il mondo».
A poco a poco però non solo in Cecoslovacchia, ma in tutto l’ex blocco sovietico abbacinato dall’improvvisa liberazione, le cose cambiarono. Quella spinta verso una democrazia autentica e radicale, sostanziata di profondi valori morali cade, si rattrappisce, si restringe. Così la democrazia si riduce a parlamentarismo, la libertà a libertà di mercato e la collettività , come fattore di iniziativa politica autonoma, a nazione. È in questo repentino cambiamento del clima generale che aveva dato vita alla svolta dell’89, è in questo quadro, che definirei di «rivoluzione dimezzata», globalmente riduttivo e regressivo rispetto alla linea di partenza, che matura la prima grande sconfitta per Havel, vale dire la separazione tra cechi e slovacchi e quindi il tradimento stesso di ciò che era stato alla base dell’azione sviluppata dai suoi predecessori democratici. Una divisione non voluta da Dubcek e sulla quale si sarebbe dovuto indire un referendum, che invece non ci fu.
La parola «socialismo», accompagnata da quella particolare specificazione «dal volto umano», viene espunta dal vocabolario politico e il neoliberismo diventa il «pensiero unico» nella gestione delle società post-comuniste. Havel, partendo da una posizione puramente morale e individualistica ai fini del cambiamento politico e in assenza di un’analisi critica del sistema di mercato, finisce per identificare, dalla metà degli anni ’90, la democrazia con il rispetto della libertà d’iniziativa e il compito del governo con la creazione delle condizioni atte al pieno dispiegamento delle forze economiche.
Ma il patrimonio più prezioso che egli ci ha lasciato è il suo pensiero antitotalitario, quello che si manifesta quando fonda Charta 77, con Jan Patocka e Jirà Hà¡jek, e quando scrive Il potere dei senza potere, pubblicato in italiano nel 1979. Questo testo fu assai utile per capire quale fosse la filosofia che sottostava ai movimenti di opposizione che si andavano sviluppando in quei Paesi. Si trattava, a detta del dissidente ceco, di dar vita innanzitutto a una rivolta morale e personale, di promuovere una «rivoluzione esistenziale» fondata sulla vita nella verità , che, in conseguenza di una decisione autonoma, mettesse in discussione l’ambiente circostante e mirasse alla costruzione di strutture di «auto-organizzazione» sociale, una vera propria «polis parallela» al fine di pervenire a un sistema post-democratico (sua la sottolineatura).
In effetti Havel parla della necessità di un’«altra» cultura e di un’«altra» società rispetto alla dittatura comunista e nello stesso tempo rispetto alle tradizionali democrazie occidentali. Esse appaiono ora più che mai svuotate di qualsiasi connotato che le possa qualificare come «rappresentative». È un pensiero estremamente attuale – e il manifesto è l’interlocutore, per la sua storia e per il dibattito «La rotta d’Europa» aperto da Rossana Rossanda sul giornale – che si salda con i movimenti di contestazione che stanno dilagando in tutto il mondo contro la nuova dittatura imposta dai centri di potere economico-finanziario e che esigono la creazione di un controllo «dal basso» delle strutture di governo. Il «socialismo dal volto umano» della Primavera cecoslovacca, il pensiero «alternativo» di Havel e di Charta 77, l’idea di un «autogoverno dei cittadini», che fu portata avanti a suo tempo da Solidarnosc, costituiscono fonti primarie per un’azione volta alla trasformazione degli attuali assetti sociali. Questi movimenti e quelle personalità che li hanno animati non devono essere «celebrati» o «marmorizzati» ma ad essi si deve attingere per dare senso e sostanza a quell’indignazione alla quale il vecchio resistente francese Stéphane Hessel chiama con forza le nuove generazioni.
* Storico dell’Europa centrale (Università Ca’Foscari di Venezia)
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