PiazzaTahrir e il Villaggio di Wukan

by Editore | 31 Dicembre 2011 8:53

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Esistono avvenimenti che agitano la pubblica opinione, conquistano le prime pagine e i notiziari televisivi, restano per molti giorni 
sulla bocca di tutti. Ma non sono necessariamente importanti. Alcuni di essi sono sopravvalutati. Il matrimonio di William e Kate non cambierà  la storia del Regno Unito. La nascita della figlia di Nicolas Sarkozy e Carla Bruni non cambierà  quella di Francia. La maggior parte delle apparizioni papali segnala l’immobilità  della Chiesa piuttosto che la sua evoluzione. Il G20 di Cannes, nello scorso novembre, è stato soprattutto una fiera delle vanità  organizzata da Sarkozy in vista delle elezioni presidenziali francesi del prossimo aprile. Il lungo bisticcio americano sul certificato di nascita del presidente Barack Obama e sulla sua reale fede religiosa è soltanto un inutile psicodramma, privo di qualsiasi rilevanza politica. 
Altri eventi sono molto meno decisivi di quanto avessimo immaginato o producono effetti alquanto diversi da quelli che avevamo previsto. Non credo, per esempio, che l’uccisione di Osama Bin Laden abbia decapitato Al Qaeda (una organizzazione priva di una forte struttura gerarchica) o inferto un colpo mortale al terrorismo islamico. Ma ha certamente avuto l’effetto di mettere bruscamente in evidenza tutte le contraddizioni e le ambiguità  dell’alleanza fra gli Stati Uniti e il Pakistan. Il suicidio di un fruttivendolo tunisino nella città  di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010 ha provocato le rivolte arabe dei mesi seguenti. Ma non sappiamo ancora quale sarà  l’effetto di quelle rivolte sui sistemi politici e sugli equilibri della regione. Sappiamo invece, soprattutto dopo le grandi manifestazioni egiziane di piazza Tahrir, che le nuove tecnologie hanno cambiato le forme, lo stile e i metodi organizzativi di una protesta. Non è necessario fondare movimenti, organizzare associazioni, addestrare militanti, predicare la rivoluzione sulle colonne di un giornale. Se esiste un malumore diffuso ma generico e spesso incoerente, basta il turbinio nell’etere dei 140 caratteri di cui si compongono i messaggi di Twitter. Gli indignados di Madrid, i giovani americani di Zuccotti Park, gli inglesi accampati di fronte alla cattedrale londinese di Saint Paul e i manifestanti di Mosca dopo le ultime elezioni, hanno creato una nuova protesta, molto più «liquida», imprevedibile e inafferrabile di quelle del passato, ma forse, in ultima analisi, molto meno efficace.
Esistono altri avvenimenti del 2011 di cui non abbiamo sufficientemente pesato l’importanza? Nello scorso luglio, mentre il tetto del debito pubblico americano era oggetto di una discussione al Congresso degli Stati Uniti, in cui lo spirito settario di alcuni repubblicani e il desiderio di ferire la presidenza Obama prevalevano sull’interesse nazionale, un’agenzia cinese ha denunciato «un brinkmanship (equilibrismo sull’orlo dell’abisso) pericolosamente irresponsabile». Un Paese governato dal Partito comunista ha dato una lezione di finanza alla maggiore democrazia capitalista del mondo. Un Paese creditore ha richiamato all’ordine il suo grande debitore. Il paladino della non ingerenza negli affari interni dei singoli Stati si è permesso di pronunciare un giudizio d’irresponsabilità  sul funzionamento della democrazia americana. 
Non molto tempo dopo, tuttavia, un’altra notizia proveniente dalla Cina metteva in evidenza la straordinaria vulnerabilità  della Repubblica popolare. A Wukan, un villaggio di pescatori della provincia meridionale di Guangdong, la gente è scesa in piazza per protestare contro la requisizione delle terre, lo strapotere della burocrazia locale, le vessazioni poliziesche del regime. Nulla di nuovo. Sappiamo che nella Repubblica popolare le proteste contro gli espropri di terre agricole e contro la creazione forzata di aree industriali, sono da qualche anno, letteralmente, migliaia. Ma questo è il primo caso in cui gli abitanti di un villaggio hanno rifiutato di sottomettersi alle intimazioni della polizia, hanno resistito, hanno creato una Comune autonoma e hanno costretto le autorità  a levare l’assedio. È questa la via cinese alla democrazia? O è soltanto l’occasione per un nuovo giro di vite?
Una nuova notizia, nel frattempo, segnalava il cambiamento delle gerarchie mondiali. Nel corso del 2011 il Brasile di Lula da Silva e Dilma Rousseff (il passaggio dei poteri ha avuto luogo in gennaio) ha superato la Gran Bretagna nella graduatoria delle economie mondiali. Il sorpasso ci sembrerebbe meno importante se non sapessimo che nel corso dell’Ottocento e buona parte del Novecento la Gran Bretagna è stata il necessario interlocutore industriale e finanziario delle economie latinoamericane. La dottrina di Monroe, con cui gli Stati Uniti volevano riservare a sé stessi il controllo egemonico della parte meridionale del continente, non ha mai impedito alla Gran Bretagna di dominare i mercati dell’America Latina. Altri allievi, nei prossimi anni, supereranno il maestro.
Negli scorsi mesi abbiamo dato molta importanza a un rapporto dell’Aiea (Agenzia internazionale dell’energia atomica) sui progressi del programma nucleare iraniano. Abbiamo prestato meno attenzione invece ai micidiali effetti di un virus chiamato Stuxnet che ha navigato come un missile attraverso numerosi sistemi informatici per approdare infine nei computer da cui dipende il funzionamento dei due grandi reattori iraniani di Natanz e di Bushehr. Stuxnet potrebbe esse stato concepito in Israele o negli Stati Uniti, ma potrebbe anche essere figlio di entrambi. Il suo impiego ci parla di nuove guerre fredde che si chiameranno «cibernetiche» e che si combatteranno con le armi segrete dell’informatica.
Esiste fra questi passaggi cruciali del 2011 una notizia europea particolarmente decisiva? Tutti i vertici europei, sino all’ultimo delle scorse settimane, hanno suscitato attese messianiche ed entusiasmi passeggeri, regolarmente smentiti da una lettura più attenta dei testi approvati. Il solo motivo di consolazione era una crescente consapevolezza, da un incontro all’altro, della gravità  del problema. Occorre dire al mondo che l’euro non è un problema greco, irlandese, portoghese, spagnolo o italiano. È un problema europeo da affrontare con una strategia europea. Spero che questa sia la prima notizia del 2012.
Sergio Romano

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