Pensioni. Ecco gli effetti della riforma Fornero

by Sergio Segio | 9 Dicembre 2011 8:50

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ROMA – Lavorare tutti per produrre più ricchezza, versare più contributi e aver diritto ad assegni pensionistici più elevati. La regola della nuova previdenza sarà  questa: le speranze di vita aumenteranno, quindi donne e uomini – al termine della vita lavorativa – in media potranno godere della pensione per un numero di anni superiore agli attuali.
Ma questo «regalo» avrà  un costo: se padri e figli – grazie alle nuove norme – andranno in pensione più o meno alla stessa età , le entrate sulle quali potranno contare saranno decisamente diverse: i figli al confronto dei padri avranno assegni inferiori in media del 25 per cento rispetto ai genitori. Un gap mitigato solo dal contributo garantito dalla previdenza integrativa, obbligatoria per le prossime generazioni.
Con la riforma Fornero, rispetto, alla situazione attuale, nessuno «vince», ma le nuove norme garantiscono un minore squilibrio generazionale. Se non sulle entrate (aspetto legato alle differenze fra sistema di calcolo retributivo e contribuitvo e all’aumento delle aspettative di vita), almeno sull’età .

Padri e madri al lavoro più a lungo
E’ la novità  più evidente della riforma Fornero. I tempi del lavoro si allungano. I dipendenti del settore privato andranno in pensione a 66 anni già  dal prossimo anno, per arrivare nel 2050 al limite anagrafico dei quasi 70 anni. Stesso punto di arrivo per le donne che cominceranno a salire la scala dell’innalzamento anagrafico già  dal prossimo anno, quando, per andare in pensione dovranno avere almeno 62 anni (66 se dipendenti pubbliche). Più anni di lavoro anche per gli autonomi.

Per i figli assegni più bassi
La pensione integrativa obbligatoria li aiuterà  a moderare il dislivello, ma comunque sia, l’assegno dei giovani sarà  inferiore a quello dei loro genitori. Due sono le variabili che peseranno sul calcolo: non potranno avvalersi del sistema retributivo (che basandosi sulle buste paga garantisce una pensione più alta) e poggeranno solo del contributivo. E poi ci si aspetta che possano vivere più a lungo e quindi il tasso di sostituzione inciderà  più pesantemente sulla loro previdenza: si tratta della cosiddetta «tassa sulla speranza di vita». Nei fatti il cinquantenne di oggi che ha iniziato a versare contributi a ventisei anni andrà  in pensione dopo i 68 anni e con una pensione pari al 75 per cento dello stipendio attuale. Il figlio che oggi ha trenta anni, che ha cominciato a lavorare solo lo scorso anno, andrà  in pensione alla stessa età  del padre, ma con un assegno pari al 56 per cento dello stipendio. Facendo i calcoli su una busta paga di 2000 euro la sua pensione si potrà  stimare di 380 euro al mese più bassa rispetto a quella del padre. Guardando alle previsioni è comunque obbligatorio far notare che le stime effettuate tengono conto delle condizioni attuali: negli anni le variabili potrebbero cambiare, a partire dal tasso di crescita del Pil che incide anche sulla rivalutazione dei contributi versati.

Il “salto” dei cinquantenni
I quarant’anni di contributi versati dal prossimo anno non basteranno più per andare in pensione a qualsiasi età . Già  dal 2012 ce ne vorranno, per gli uomini, almeno 42 (41 anni e un mese per le donne). Ciò vuol dire che per chi oggi ha cinquant’anni la pensione di anzianità  è ancora possibile, ma solo se ha cominciato a lavorare presto: non varrà , per esempio, per i laureati che avranno versato contributi solo dopo il titolo. La differenza pesa: il cinquantenne al lavoro da quando aveva 20 anni va in pensione a 64 anni e due mesi, grazie appunto all’anzianità , ma il coetaneo che ha cominciato a lavorare tre anni dopo andrà  in pensione a 67 anni e 6 mesi.
Il paradosso dei quarantenni
e la “regola del 63”
La riforma Fornero prevede che sia possibile andare in pensione anche a «soli» 63 anni, purché siano stati versati almeno venti anni di contributi e che la pensione maturata sia non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale. Tale norma vale solo per chi poggia totalmente sul sistema contributivo, quindi non è applicabile a chi alla fine del 1995 avesse già  qualche anno di lavoro alle spalle calcolato con il metodo retributivo (riforma Dini). Ciò può far scattare il paradosso del quarantenne (visibile dalle tabelle): il nato nel 1971 che ha cominciato a lavorare a 23 anni andrà  in pensione più tardi del coetaneo che ha cominciato a lavorare a 26 (69 anni e 3 mesi contro i 66 e10). Questo perché la sua è una pensione pro-rata (retributiva per gli anni di lavoro effettuati prima del 1996, contributiva per quelli dopo) e non potrà  quindi avvalersi della “regola del 63”, utilizzabile dal suo coetaneo che – avendo cominciato a lavorare più tardi, potrà  invece farci conto. Ciò che perderà  in età  lo recupererà  però in euro: il suo assegno, grazie anche quel «pezzetto» di retributivo sarà  pari al 71 per cento dello stipendio contro il 59 del collega.

La soglia dei 15.190 euro
e l’età  pensionabile
È sempre legata alla “regola del 63”, prevista appunto solo per chi versando venti anni di contributi – e essendo stato assunto dopo il 1996 – potrà  andare in pensione a 63 anni, ma a condizione che l’assegno maturato sia non inferiore a 2,8 volte quello sociale. Non inferiore appunto ai 15.190 euro annui (alle condizioni attuali): chi non supererà  detta soglia dovrà  quindi lavorare più a lungo prima di aver diritto all’assegno.
Autonomi, pensioni minime
Va detto che commercianti e artigiani, nonostante l’innalzamento delle aliquote introdotte dalla riforma Fornero, continueranno a versare meno contributi rispetto ai lavoratori dipendenti (ora il gap è del 20-22 per cento contro il 33). Ciò li penalizzerà  riguardo l’entità  dell’assegno, che rispetto al reddito, sarà  più basso rispetto a quello delle altre categorie. Un autonomo che oggi ha 40 anni e che ha iniziato a lavorare a 29, andrà  in pensione a 66 anni e 10 mesi solo con il 33 per cento del reddito mensile ora dichiarato.

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