Ottimo dissidente, pessimo presidente

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Naturalmente Vaclav Havel merita l’elogio di tutti, da Obama a Napolitano. Tutti a ricordare il «costruttore dell’Europa» che «riconsegnò Praga al Vecchio Continente». Nessuno che rifletta sul disastro dell’Europa unita a partire dai processi democratici mancati nelle aggregazioni a Est. Ora che dilaga la crisi e che si inverano nuovi “muri” di separazione. Eppure, proprio guardando in filigrana la figura politica di Vaclav Havel, si possono scorgere tutte le ombre pesanti, le attese e le ambiguità  che hanno contrassegnato questi lunghi anni. Fino a definire quella che lo storico dell’est Francesco Leoncini chiama «L’Europa del disincanto».
Solo osservatore della Primavera del ’68, è negli anni bui della reggenza Husak che Havel costruisce il suo pensiero e la sua iniziativa, pagando duramente con il carcere dopo la fondazione di Charta 77. Nella Lettera al segretario generale del Partito comunista aveva precedentemente denunciato la crisi dell’identità  umana nel socialismo realizzato, oppressa da un sistema che «annienta l’individuo», un sistema che è al di fuori del «disordine della storia autentica» e che si riproduce solo con l’artificio di un «ordine della pseudostoria». Formulando così una teoria anticomunista, ma tra le meno rozze mai espresse. Ma è soprattutto con il saggio del 1979 Il potere dei senza potere che definisce un agire che oggi chiameremmo dell’antipolitica, con l’accento messo sull’iniziativa della persona, sulla rivolta morale, l’indignazione. Non un programma ma un modo di essere. Come poteva essere diversamente per un uomo di teatro appassionato? E invece diversamente fu. Perché quando il dissidente divenne presidente, quando l’uomo di teatro occupò il Castello di Kafka, nessuno capì più che fine avessero fatto i “senza potere”. 
Nel novembre del 1989 la folla accalcata a piazza Venceslao gridava «Dubcek-Havel», mentre i due testimoni parlavano da un balcone. Era tornato in pubblico Alexander Dubcek a ritessere le fila delle ragioni della Primavera ’68, massacrate dai carri armati del Patto di Varsavia che per ordine di Brezhnev avevano invaso la Cecoslovacchia il 21 agosto del ’68. A lui sarebbe spettato un ruolo preminente, il solo che potesse essere indipendente dai blocchi e capace d’interloquire con l’iniziativa ancora forte di Gorbaciov. Piano piano invece venne accantonato. Havel divenne presidente della repubblica cecoslovacca, Dubcek solo presidente del parlamento. Il nuovo governo cecoslovacco guidato dal thatcheriano iperliberista Vaclav Klaus inaugurò, con l’avallo istituzionale di Vaclav Havel, le leggi punitive della Lustrace, l’epurazione dalle istituzioni pubbliche, dallo stato all’insegnamento, degli iscritti al Partito comunista cecoslovacco dopo il ’69. A pagare davvero, visto l’abile riciclaggio in veste di nuovi capitalisti dei burocrati comunisti che controllavano le strutture economiche del paese, furono quei militanti che avevano difeso la Primavera, quelli che in armi, sfidando i tank russi, avevano convocato un congresso clandestino dei comunisti e quelli che ancora nel 1970 costruivano il movimento dei consigli operai. Ecco che dall’anticomunismo raffinato, si passava all’intimidazione e al gioco sporco dei dossier. 
Nel 1993 Dubcek morì in un incidente mentre correva tra Praga e Bratislava per scongiurare la scissione in due del paese federale, economicamente il più avanzato dell’est, la cui costituzione unitaria era il lascito democratico, l’unico rimasto, della Primavera ’68. Subito dopo, quasi in trattativa privata tra Vaclav Klaus e il leader slovacco Vladimir Meciar, la Cecoslovacchia si divise in Slovacchia e Repubblica ceca. Havel non fece nulla per impedire questa separazione contro la quale molti intellettuali dei due paesi sono ancora oggi mobilitati. Una divisione scellerata che ha portato un grande paese a confrontarsi, spaccato, con i pesanti processi europei dominati dalla nuova primazia della Germania appena riunificata. In una Europa nella quale, più che l’Unione si espandeva la subalternità  dei paesi e delle nuove piccole patrie dell’Est alle promesse di investimenti occidentali. Ma a Est cresceva soprattutto l’allargamento della Nato, organismo militare obsoleto, costoso e fuori dalla storia visto il crollo del muro di Berlino. Havel fu negli anni ’90 il principale sostenitore dell’allargamento a est dell’Alleanza atlantica, voluta in primis da Bush padre prima, poi da Bill Clinton – grande amico di Havel – e ancora da Bush figlio. Una convinzione che per Havel si radicò nella scelta di alcune “avventure” militari: il sostegno alla guerra “umanitaria” Nato contro l’ex Jugoslavia; l’adesione alla guerra di Bush contro l’Iraq; l’appoggio allo scudo antimissile Usa da dislocare a soli 70 km da Praga.
Per usare le stesse parole di Vaclav Havel, ora il tanto desiderato «disordine della storia autentica» altro non è che il disastro del neoliberismo, con i suoi “senza potere” schiacciati dal nuovo potere unico, proprio quello uscito vittorioso dall’89. E non basterà  un’ultima indignazione a salvarci, ma la ritessitura di un ordine nella storia. Dunque, addio a un ottimo dissidente e a un pessimo presidente.


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