NON È UN GIOCO A SOMMA ZERO

by Editore | 29 Dicembre 2011 9:33

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La contraddizione è bruciante, e qualcuno ci perde la testa. I media che fino a ieri ospitavano moralistiche giaculatorie contro il consumismo, moderno oppio dei popoli, ora denunciano inorriditi il calo dello shopping natalizio e chiedono al governo di fare qualcosa. Tra lo tsunami in Giappone di marzo e quello nei mercati di ottobre, abbiamo visto in faccia il dilemma della crescita economica che accompagna fin dalla sua nascita l’homo capitalisticus.
Qualche luogo comune, intanto, è bene che crolli. Solo la crescita economica può migliorare la vita materiale degli esseri umani. Se guardiamo il mondo dalla Cina, per esempio, vedremo centinaia di milioni di uomini che in questi anni sono usciti dal medioevo dei loro villaggi, e hanno conquistato un lavoro e una speranza. Processo storico, e altamente positivo; che molto probabilmente ha però contribuito a causare migliaia di cassintegrati qui da noi, cosa tutt’altro che piacevole. È così che funziona il capitalismo: distrugge, per creare. Naturalmente il potere pubblico in Europa può e deve agire perché, distruggendo ciò che va distrutto, non si distrugga anche la vita delle persone. Ma pure per garantire l’equità  sociale c’è bisogno di risorse economiche, e pure quelle vengono dalla crescita. Non c’è scampo: senza crescita, non vince nessuno e perdiamo tutti.
Invece, quanti sospetti intorno a questa parola, se perfino i metalmeccanici della Fiom hanno preso a manifestare contro lo sviluppo. L’Economist ha notato che, tecnologia a parte, le tre industrie di maggior successo degli ultimi cinquant’anni sono state la finanza, la farmaceutica e l’energia. Ma, guarda caso, tutte e tre sono estremamente impopolari, e vengono normalmente additate, dai film di Hollywood ai cortei no global, come la causa principale delle diseguaglianze, del cinismo e dell’inquinamento. Il fatto è che nella nostra cultura troppi ancora concepiscono la crescita come un gioco a somma zero, dove, se qualcuno ci guadagna, sicuramente c’è chi ci perde. E invece sono bastati due salti tecnologici come il computer e l’information technology a ribaltare il pessimismo che prese la classe colta dell’Occidente alla fine degli anni Settanta, quando anche allora sembrava che l’energia fosse in esaurimento, i mercati saturi, i consumatori esausti e lo sviluppo finito. Da allora, che cavalcata ha fatto il mondo! Così inebriante da spingere i più ottimisti a credere che il tempo dei cicli economici fosse definitivamente concluso e che «recessione» fosse una parola destinata a non essere mai più pronunciata. Troppa hybris, cioè troppa tracotanza verso il destino, e troppi debiti. E la recessione, ovviamente, è tornata. Purché sia chiaro che ogni crisi non è la fine: è anzi un’opportunità  perché, come è scritto in un appello di Comunione e liberazione, chiama al cambiamento, frutto di una libertà  in azione: e «la libertà  presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi, «nella speranza siamo stati salvati», dice San Paolo ai Romani).Ai catastrofisti e ai teorici della decrescita andrebbe ricordata la scommessa che nel 1980 fecero l’economista Julian Simon e il biologo Paul Ehrlich. Quest’ultimo, assumendo un punto di vista malthusiano, predisse che a causa della crescita industriale e demografica nel corso dei dieci anni seguenti il prezzo di cinque metalli fondamentali non poteva che aumentare e diventare insostenibile. Perse la sua scommessa perché accadde esattamente il contrario. Oggi che è nato il bambino numero sette miliardi, c’è di nuovo chi scommette che con l’aumento dei prezzi dei beni alimentari e con il degrado crescente dell’ambiente non ce la faremo. È probabile, ma solo se smetteremo di crescere, di innovare, di inventare nuovi modi di produrre, nuovi prodotti, nuove risorse da sfruttare, magari rinnovabili. Il telefonino, che ai fustigatori del consumismo è apparso come una delle più futili infatuazioni dell’Occidente, ha consentito all’Africa di recuperare il suo divario di reti telefoniche fisse, rappresentando così un formidabile fattore di sviluppo, di comunicazione, di informazione.
Vale lo stesso per la finanza, buona se ci presta i soldi per pagare stipendi e pensioni ogni volta che ci servono, ma cattiva se ogni tanto si permette di fare domande sulla loro restituzione. Fu in Italia che nacque il mestiere di prestare danaro, e fu in Italia che subito si scontrò con la condanna della Chiesa. Essa era basata sul principio che chi commercia in denaro commercia in tempo, il tempo intercorrente tra prestito e riscossione durante il quale matura l’interesse. E il tempo, per definizione, appartiene a Dio, come racconta una bella mostra a Firenze sul rapporto tra arte e denaro. Ma che appartenga al Creatore o al Mercato, è proprio il tempo la materia prima che serve disperatamente a noi italiani del 2012. Perché se tra dieci anni i nostri figli dovranno pagare gli interessi che stiamo sottoscrivendo oggi, state pur sicuri che avremo smesso di crescere.
Antonio Polito

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