Non chiamiamoli clandestini

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Va da sé che l’Italia non eÌ€ «un Paese razzista». E c’eÌ€ da chiedersi se vi sia al mondo un Paese definibile come razzista. Non c’eÌ€ dubbio tuttavia, che vi siano stati sistemi politici organizzati secondo linee di discriminazione razziale, tracciate da conflitti etnici e da legislazioni discriminatorie; ed eÌ€ altrettanto ovvio che quelle strutture non siano state bandite una volta per sempre, ma tendano a riprodursi.
Diverso eÌ€ il discorso relativo all’orientamento culturale e alla mentalitaÌ€ condivisa della popolazione di uno stato democratico. EÌ€ qui che la definizione di «Paese razzista» sembra davvero difficile da attribuirsi. Qui, certo, possono svilupparsi movimenti xenofobi e scontri etnici; qui possono essere adottate leggi e politiche discriminatorie: ma ancora siamo assai lontani da poter definire «razzista» la popolazione di quello Stato. In tutti i Paesi europei, negli ultimi due decenni, si sono manifestati movimenti e partiti fondati sull’ostilitaÌ€ nei confronti degli stranieri, che hanno conosciuto alterne fortune elettorali.
In Italia il principale partito xenofobo, la Lega Nord, non ha fatto della lotta contro l’immigrazione il suo primo obiettivo, pur collocandolo in cima al proprio programma, ma ha sempre privilegiato il tema della secessione. E, tuttavia, la sua costante polemica contro lo Stato centrale ha sempre avuto una sua aggressiva ricaduta nella stigmatizzazione dello straniero; e, dalla cruciale postazione del ministero dell’Interno, nella politica dei respingimenti. CioÌ€ ha fatto della Lega il primo degli imprenditori politici dell’intolleranza. Ovvero coloro che trasferiscono nella sfera politica e utilizzano come risorsa elettorale il disagio prodotto dal faticoso impatto tra residenti e immigrati. Qui sta il nodo cruciale dell’intero problema.
L’ansia collettiva nei confronti dello straniero, tanto piuÌ€ in una fase
di acuta crisi economica, eÌ€ un sentimento spiegabile: la traduzione di quel sentimento in conflitto politico eÌ€ la piuÌ€ scellerata e colpevole delle strategie. Tutto cioÌ€ sembra diventare infine chiaro, ma c’eÌ€ qualcosa che continua a essere costantemente sottovalutato e che rischia di risultare un formidabile fattore di precipitazione delle situazioni di crisi. EÌ€ la questione del linguaggio. Finalmente si incomincia ad affrontare il tema, ma esso eÌ€ cosiÌ€ sottile e pervasivo da non essere sempre colto nella sua criticitaÌ€, in particolare quando si presenta con una sua «innocenza», dovuta a una supposta neutralitaÌ€. CioÌ€ riguarda in particolare quello che forse eÌ€ il termine piuÌ€ utilizzato nel vocabolario dell’immigrazione: clandestino. A questa parola si fa ricorso, da tempo, con speciale riferimento a coloro che sbarcano sulle nostre coste. Vi ricorrono gli organi di informazione piuÌ€ insospettabili, o perché incapaci di cogliere il terribile peso colpevolizzante che il termine porta con sé, o perché incapaci di sottrarsi all’omologazione linguistica dominante. E cosiÌ€ vengono chiamati clandestini i meno clandestini tra tutti i migranti: quanti giungono sulle nostre coste in pieno giorno o sotto la luce abbagliante di fari, riflettori, telecamere e flash, mostrando i loro volti allo sguardo invadente della curiositaÌ€ dei residenti e di noi tutti, palesemente privi di ogni cosa e totalmente disarmati, nudi o semi nudi, piagati o febbricitanti, comunque assolutamente inermi. Per questi esseri umani, costretti a mostrarsi nella loro «nuda vita», i democraticissimi e tollerantissimi operatori dell’informazione usano il termine clandestino. Che evoca, piuttosto, la figura di chi agisce nell’ombra, trama nel buio, ci minaccia alle spalle. EÌ€ solo un esempio delle peripezie, talvolta perverse, che conosce il linguaggio. Molto opportunamente l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, d’intesa con l’Unhcr, con l’adesione di Arci, Acli, Amnesty International, Centro Astalli, A Buon Diritto e molti altri, ha promosso la cosiddetta Carta di Roma.
In essa si affronta la questione della «informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, (…)con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignitaÌ€ (…)». Di conseguenza, i promotori invitano i giornalisti ad «adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore e all’utente la massima aderenza alla realtaÌ€ dei fatti, evitando l’uso di termini impropri». Molto giusto. Speriamo che la Carta di Roma, come si dice, non resti sulla carta.


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