NOI ARMENI, FERITI DAL GENOCIDIO ORA IL DIRITTO ALLA MEMORIA

by Editore | 24 Dicembre 2011 8:25

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Dallo schermo del computer mi guarda il leone d’Armenia, disteso sulla tomba dei principi Orbelian, lassù nell’alta valle di Noravank, in un appartato angolo del Caucaso. È un leone dormiente, visto di fianco, con una zampa ripiegata sul petto: immagine inconsueta e affascinante, che ben rappresenta il popolo armeno e la sua indole aristocratica e montanara, radicata da millenni intorno al Monte Ararat e ai tre grandi laghi di Sevan, Van e Urmià .
Là  un ruscello incontaminato scorre in mezzo a ripari rupestri abitati millenni fa, a grotte dove ancora i pastori offrono il pane al viandante: là  tre “chiese di cristallo”, come le definì Cesare Brandi, ancora sorgono su un isolato pianoro. Nell’epoca d’oro del regno d’Armenia, accanto ai monasteri fiorivano centri di grande cultura, scriptoria affollati di copisti, di pittori di miniature, di industriosi mercanti intenti a cospicui scambi commerciali: erano importanti punti di transito sulla via della seta, luoghi di contatto e di incontro fra Oriente e Occidente.
Il popolo armeno è infatti un popolo-ponte, una tribù indoeuropea che da sempre sta in mezzo fra l’Asia e l’Europa, ed è stata spesso vittima degli scontri feroci fra i grandi imperi, dai Sassanidi ai Bizantini ai Turchi Selgiuchidi, pur conservando per millenni la sua identità  culturale e religiosa. Ma la ferita che gli viene inferta nel 1915-1922 è totale: la perdita della terra avita e di ogni possesso, case, chiese, scuole, fabbriche, e soprattutto la terra. Gli armeni perdono tutto, e da minoranza rispettata e ben radicata, dopo una pulizia etnica che ne elimina più della metà  (circa 1.200.000), diventano una “turba dispersa che nome non ha”, come scrive il poeta. Un popolo in diaspora, come gli ebrei; ma mentre agli ebrei la Germania ha chiesto scusa, sugli armeni è scesa, dal 1924, data del trattato di Losanna, fino agli anni Ottanta, una pesante, totale coltre di silenzio. E mentre la ferita degli armeni, privati anche della memoria del lutto, rimane aperta e dolente, ad Istanbul si ergono i mausolei dedicati a Talaat e ad Enver, i due principali responsabili del genocidio: come se a Berlino i tedeschi avessero eretto monumenti a Hitler e a Himmler! 
Si discute in questi giorni sulla decisione dell’Assemblea Nazionale di Francia di approvare una legge che colpisce il negazionismo contro il genocidio degli Armeni, il Metz Yeghèrn, in analogia alla Legge Gayssot del 1990 contro chi nega la Shoah ebraica. Il governo turco reagisce come al solito, con furibonda determinazione, incurante del parere della grandissima maggioranza degli storici, basata sulla massa enorme di studi e di documenti usciti su questo argomento negli ultimi vent’anni: grida minacce, ritira l’ambasciatore, promette sfracelli.
E io mi domando, sommessamente: quanto tempo ancora dovrà  passare perché l’establishment politico e militare di questo grande paese, che è la Turchia contemporanea, accetti di riconoscere che nel lontano 1915, quasi un secolo fa, nelle pianure d’Anatolia fu perpetrato il primo genocidio del Ventesimo secolo, dal governo dei “Giovani Turchi”, che nulla ha a che vedere con l’attuale Repubblica di Turchia? Non c’è infatti continuità  fra l’Impero Ottomano e la repubblica attuale, ma una frattura storica netta e amplissima.
Ma perché tanta enfasi sulla parola “genocidio”? Perché le grandi comunità  armene della diaspora, negli Stati Uniti, in Francia e in Russia, come d’altronde tutte le altre sparse per il vasto mondo, insistono su questo punto con tanta drammatica intensità ? Perché non si accontentano dei sinonimi, come strage o massacro?
Perché fu genocidio, se questa parola ha un senso. Quando l’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, rifugiatosi negli Stati Uniti, la inventò nel 1944, aveva dietro di sé una storia ventennale di riflessione sulla tragedia armena e sul modo in cui fu attuata. 
Un’eliminazione programmata a freddo, eseguita su tutta una minoranza – afferma Lemkin – per ragioni etniche, religiose o politiche, con tutta la forza di uno Stato sovrano e usando tutti i mezzi più moderni adatti allo scopo, senza escludere vecchi, donne o bambini: un’azione moderna e ben organizzata. È questo il punto su cui gli armeni insistono: non tanto su una legge, come quella francese, che purtroppo può diventare facilmente censura o limitazione della libertà  di parola, ma sul diritto di un popolo massacrato, scacciato dal suo focolare avito e dimenticato per decenni, di vedere la propria memoria accolta e il proprio dolore rispettato.

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