by Editore | 27 Dicembre 2011 7:24
Secondo Shell Nigeria l’incidente è avvenuto il 20 dicembre «nel corso di operazioni di routine di trasferimento del greggio su una petroliera»; la fuga è stata individuata in una conduttura che è stata poi chiusa e depressurizzata, interrompendo il flusso del petrolio; la chiusura di Bonga quindi è stata «una misura precauzionale».
La compagnia petrolifera minimizza l’incidente. Afferma che la marea nera sarà bonificata rapidamente, e che secondo le immagini satellitari, le telecamere a infrarosso e i controlli in acqua il petrolio sversato resta in altomare e si sta riducendo: «L’iridescenza si è assottigliata notevolmente grazie a una combinazione di fattori naturali e all’applicazione di disperdente», ha dichiarato il 23 dicembre il capo di Shell Nigeria, Mutiu Sunmonu.
Ma tutto questo non suona affatto rassicurante per le comunità costiere e i pescatori del delta del Niger, regione che già paga un prezzo altissimo alle attività petrolifere. Il fatto che Shell stia impiegando ben 5 navi per cospargere la marea nera di disperdenti chimici è in sé allarmante: sia perché le sostanze chimiche che frantumano le chiazze di petrolio sono un pericolo per la vita marina, e molti le considerano un rimedio peggiore del male. Sia perché l’uso di 5 navi testimonia di quanto estesa sia la chiazza – o forse di quanto Shell sia ansiosa di chiudere al più presto l’incidente, particolarmente imbarazzante perché è l’ennesimo. Non molto tempo fa la compagnia anglo-olandese ha infatti dovuto ammettere (in sede legale) la sua responsabilità per uno sversamento di dimensioni impressionanti avvenuto nel 2008 nella regione di Bodo, per cui è stata condannata a pagare forti indennizzi. Mentre lo scorso ottobre il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) ha diffuso il suo rapporto sull’inquinamento provocato dalla stessa Shell nell’Ogoniland, regione del delta dove la multinazionale anglo-olandese ha aperto i primi pozzi petroliferi alla fine degli anni ’50: e da allora ha sistematicamente inquinato i terreni, l’acqua, l’aria, i canali, privando un’intera popolazione dell’agricoltura e della pesca di cui sopravvive.
Quando la popolazione Ogoni si ribellò a quella devastazione, negli anni ’80, Shell rifiutò le sue responsabilità e si rese complice della violenta repressione scatenata dal governo, allora una dittatura militare (repressione che raggiunse il culmine, nel 94, con l’impiccagione dello scrittore Ken Saro Wiwa e altri 8 militanti del movimento di protesta). Da allora Shell cerca in tutti i modo di lavare quella vergogna, e uno è stato proprio cofinanziare lo studio fatto dall’Unep. E questa volta dovrà ben accettare la sua responsabilità per la bonifica mai fatta in Ogoniland: secondo l’Unep, ripulire un disastro così profondo richiederà 30 anni di lavoro e un miliardi di dollari di investimento.
Con una tale storia si capisce la diffidenza dei nigeriani. «Abbiamo allertato i pescatori e le comunità costiere perché si guardino in giro», ha detto Nnimmo Bassey, direttore del Environmental Rights Action (organizzazione nigeriana affiliata alla ong Friends of the Earth, di cui Bassey è anche il segretario internazionale), e ha chiesto che il governo della Nigeria faccia la sua indagine indipendente per verificare quanto greggio è davvero finito in mare.
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