Nella nuvola di carbone

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I mucchietti di terra sul ciglio della strada sono neri. Una spessa patina di polvere di carbone ricopre erba, cespugli, foglie, alberi. Pezzi di carbone caduti dai rimorchi dei camion sono disseminati sulla strada che sale alla centrale termica di Khatara, distretto di Bokaro, nello stato indiano del Jharkhand. Siamo nel bacino del Damodar, fiume che scende dalle colline rocciose dell’India centrale e scorre a oriente verso il grande delta del Gange: un bacino carbonifero disseminato di miniere in parte sotterranee, spesso a cielo aperto – grandi conche profonde dentro a cui centinaia di persone lavorano con pale e cesti, anche loro coperti di polvere nera, come in un girone d’inferno. Qui è il carbone che dà  forma al paesaggio, con le miniere e ciò che ne discende: le acciaierie – il capoluogo di questo distretto, Bokaro, è chiamata Steel City, città  dell’acciao; più a est c’è Jamshedpur, sede del primo stabilimento siderurgico del paese fondato nel 1905 da Jamshedji Tata (da cui il nome della città ), capostipite della più nota famiglia di industriali indiani. Tra le due città  dell’acciaio abbondano le fabbriche metallurgiche semi-artigianali. E le centrali termiche a carbone. Come quella di Khatara, appena a monte della «città  dell’acciaio». La centrale termica e il paesetto sono tutt’uno, separati solo da poche centinaia di metri di una strada ingombra di camion appena arrivati o pronti a ripartire. Accanto all’impianto c’è un semplice terrapieno che trattiene l’invaso dove sono scaricate le ceneri esauste dalla centrale; da qui un rigagnolo scende nel torrrente che confluisce nel Damodar, portandosi i veleni di quelle ceneri tossiche. «Il Damodar è la linea vitale di questa regione, ha visto svilupparsi una civiltà  antica, alimenta un’agricoltura che ha permesso insediamenti umani rigogliosi. Oggi in questi distretti di miniere e acciaierie vivono circa 10 milioni di abitanti», dice Sharat Singh, attivista sociale ed ecologo. Si rivolge a un’assemblea popolare, nel club sociale di Khatara: una «consultazione popolare sul diritto al cibo e all’acqua» organizzata dagli avvocati del Human Right Law Network, rete indiana per i diritti umani, e da un coordinamento di gruppi locali, la «Campagna per salvare il Damodar». Sharat Singh spiega che la vallata sta perdendo la sua biodiversità , nelle risaie le varietà  tradizionali sono sostituite da quelle ibride («ma sono meno adattabili e i raccolti più a rischio»). Lo sviluppo industriale è avvenuto senza alcun riguardo, l’inquinamento è selvaggio, le piccole aziende non rendono conto a nessuno e quelle grandi «presentano delle “valutazioni di impatto ambientale” che fanno ridere», spiega ancora Singh: «Nel migliore dei casi si limitano a dire che il territorio trasformato a usi industriali viene riequilibrato piantando alberi su altro terreno. Ma nessuno stima la reale quantità  di polveri e scarichi prodotti dalle miniere o dalle industrie. E nessuno considera l’effetto cumulato di tanti impianti nel raggio di decine di chilometri». Un medico, Arun Kumar, elenca le malattie più diffuse in questi villaggi letteralmente avvolti dal carbone: dalle malattie della pelle ai tumori. Ma indagini epidemiologiche complete non esistono, né indagini sistematiche sui reflui, ceneri, polveri che avvelenano queste terre, l’acqua dei fiumi, gli abitanti. Sharat Singh cita il Mahatma Gandhi: quando lo sviluppo mina la vita delle persone, è ora di ridiscutere lo sviluppo.


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