Neanche se la Nato restasse 100 anni

by Sergio Segio | 6 Dicembre 2011 13:00

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Un decennio dopo la prima conferenza i risultati sono sotto gli occhi di tutti: peggio oggi di allora Il 5 dicembre, «ci incontreremo per discutere insieme del nostro viaggio decennale». Così il presidente Hamid Karzai si è presentato venerdì scorso a Bonn, dove lo aspettava il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle, che ha accolto la delegazione afghana. Secondo le parole dello stesso Karzai, la Conferenza internazionale che si è tenuta ieri a Bonn era dunque l’occasione per trarre un bilancio di dieci anni: «dieci anni di promesse non mantenute, di dichiarazioni di principio senza seguito, di progetti realizzati senza una vera strategia di fondo. Dieci anni di bugie e di mancanza di trasparenza», sostiene polemicamente Khadeleh Khorsand, studentessa universitaria e giovane attivista, collaboratrice ad Herat del Civil Society and Human Rights network. Khadeleh Khorsand ha poca fiducia nell’esito della Conferenza di Bonn, «perché rischia di essere solo l’ennesima passerella di ministri e politici, di leader e potenti, e di riflettere poco le preoccupazioni del popolo afghano, nonostante la presenza di qualche rappresentante della società  civile».
A dispetto del decennale dispiegamento di truppe internazionali, in Afghanistan le preoccupazioni sono ancora molte, e la prima è forse la mancanza di sicurezza, non solo nelle aree tradizionalmente più conflittuali, come le province di Helmand e Kandahar o le turbolente zone al confine con il Pakistan. Barba bianca e ben curata, sguardo serio ma simpatico, Mohammed Sardar Saraji è il vice-capo di uno dei Consigli provinciali degli Ulema, gli organi di rappresentanza dei religiosi, e non sembra per niente soddisfatto dell’operato delle truppe straniere. «Nel 2001, qui non c’erano i soldati stranieri, ma neanche i Taleban si vedevano in giro. Poi però il loro numero è cresciuto. Questo vuol dire che da quando le truppe straniere sono qui la situazione è peggiorata per noi. Lo dimostrano i fatti: fino al 2002 da Qala-e-now potevo raggiungere via terra, senza problemi, sia Bala Murghab che il distretto di Muqur, ora invece non posso andarci, perché rischierei troppo». Il malawi Sardar Saraji parla della provincia del Badghis, tra le più povere del paese, al confine con il Turkmenistan, un crocevia di (pochi) commerci leciti e (molti) illeciti. Ma le sue parole potrebbero riferirsi a molti altri posti del paese centroasiatico.
Anche a Farah, la provincia occidentale al confine con l’Iran: «La strategia delle truppe straniere non funziona – dice Farid Aibad, che coordina le attività  dell’Afghan Youth Social Organization -. Soprattutto nei distretti, nei villaggi, i Taleban sono tornati a ad attaccare, a colpire i rappresentanti del governo, a uccidere con facilità , a distruggere ogni cosa. Sono dieci anni che aspettiamo sicurezza, e ancora non l’abbiamo trovata».
Nel suo discorso di ieri, Karzai ha affrontato proprio il tema della sicurezza e del processo di transizione – il progressivo trasferimento della sicurezza dalle forze Isaf-Nato a quelle locali – , ma ha indugiato con accenti polemici anche sulla scarsa attenzione che la comunità  internazionale ha riservato in questi anni alla ricostruzione. Un tema di cui in Afghanistan molti si lamentano: «L’errore principale sta proprio qui, sostiene per esempio Abdul Rahim Azin, che lavora al Dipartimento governativo di economia di Qala-e-now: oltre alle questioni militari, la comunità  internazionale avrebbe dovuto pensare allo sviluppo economico, alla stabilità  sociale, a rafforzare i meccanismi della governance, che significa garantire i servizi fondamentali ai cittadini e risolvere i loro problemi, e quindi avere la loro fiducia, ottenere stabilità . Invece ha puntato soltanto sull’aspetto militare, e lo ha fatto male». In altri termini, come spiega sinteticamente Munci Ramazan Surkhabi, dell’Ufficio dello sviluppo di Qala-e-now, «se per avere sicurezza servono i soldati, anche quelli stranieri, per avere una sicurezza sul lungo termine, che vuol dire stabilità , occorre un efficiente sistema di governo locale, un vero piano di ricostruzione. Altrimenti, sarà  tutto inutile». Fin qui sorda alle richieste provenienti dalla controparte afghana, preoccupata di addomesticare le obiezioni dell’opinione pubblica nei confronti di un’occupazione il cui esito è sempre più incerto, in molti si chiedono se la comunità  internazionale che si riunisce a Bonn saprà  davvero compiere un necessario salto di paradigma. Perché o si cambia, o non se ne esce, sostengono molti afghani. Tra questi, il giornalista Abdul Rahim Rahmani, che vive tra Herat e Qala-e-now: «Con la strategia adottata fin qui – afferma il direttore di Radio Anzala – anche se restassero altri 100 anni le truppe straniere non riuscirebbero a ottenere granché, non ci sarebbero cambiamenti significativi. La comunità  internazionale deve rivedere l’intera strategia, le sue priorità , elaborare piani di sviluppo economico, prestare maggiore attenzione alla ricostruzione e alle infrastrutture. Se non lo fa, il rischio è che i Taleban tornino al potere con la forza». Sta proprio qui, uno degli interrogativi cruciali a cui si doveva rispondere a Bonn: cosa succederà  da qui al 2014, la data prevista per il ritiro delle truppe internazionali, e cosa succederà  dopo il 2014, perché, come dice uno studente universitario di Herat, «una volta ritirate le truppe della Nato, toccherà  vedere chi farà  più in fretta a occupare il vuoto lasciato, militarmente ma anche politicamente. Il governo afghano è troppo debole e incapace per farlo. I paesi vicini potrebbero essere quelli più scaltri. Oppure i Taleban». E di Taleban, e del piano di riconciliazione si è parlato a lungo durante la Conferenza di Bonn, perché molte cancellerie occidentali, compresa quella americana, si sono ormai convinte che la soluzione militare da sola non basta, e che occorre puntare alla soluzione politica. In Afghanistan, molti condividono quest’idea, e proprio per questo condannano la decisione di escludere gli esponenti dei movimenti antigovernativi dalla Conferenza: «Non c’è altra soluzione al dialogo con i Taleban, argomenta Ahmad Qureishi, chief reporter dell’agenzia di stampa Pajhwok. E’ uno sbaglio che non siano stati invitati alla Conferenza di Bonn. E’ vero che in parte sono legati al Pakistan, ma c’è anche gente onesta. Escluderli dalla Conferenza e rimandare il negoziato vuol dire assicurarsi che la crisi afghana continuerà  ancora molto a lungo».
Per risolverla, suggerisce l’attivista Khadeleh Khorsand, occorre «comprendere da una parte che quella che si gioca in Afghanistan è una partita di livello regionale, che include tutti i principali attori dell’area, e dall’altra restituire la sovranità  agli afghani, però senza abbandonarli». Khadeleh Khorsand interpreta un sentimento molto diffuso, che Farid Ehsas, dirigente del Dipartimento della riforma amministrativa di Farah, sintetizza così: «C’è un sentimento contraddittorio, qui in Afghanistan. La gente chiede di poter gestire il paese, di avere l’opportunità  di poter tornare a decidere del proprio destino, ma allo stesso tempo teme di essere abbandonata dalla comunità  internazionale». Anche Karzai lo teme: a Bonn ha chiesto ai partner internazionali di proseguire insieme il viaggio iniziato 10 anni fa. Questi lo hanno rassicurato, ma, al di là  delle dichiarazioni, hanno già  imboccato un’altra strada.

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