Natale: una questione di giustizia per popoli e individui. Due storie.

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Il significato dirompente del Natale, che travalica qualsiasi confine confessionale e religioso, sta tutto in un nuovo modo di cogliere la realtà : la povertà , l’insignificanza e la debolezza possono essere rovesciate in un modello di vita capace di cambiare il mondo. Non si tratta di una esaltazione della miseria, paravento utile per il capitalismo “compassionevole” e sfruttatore, ma di una sete di giustizia che obbliga lo sguardo ad immergersi nelle situazioni più tragiche e degradate sapendo che là  si può celare la scintilla del riscatto. Da un altro lato l’immagine delle ingiustizie si può trovare in vicende individuali in cui si ritrovano condensati i drammi che affliggono l’umanità : l’intolleranza, la mancanza di libertà , l’odio nei confronti del diverso, l’incapacità  di pensare a un futuro migliore. Centinaia di migliaia sono i detenuti “politici” nelle prigioni dei vari regimi autoritari del mondo, centinaia di migliaia sono però le persone condannate all’indigenza da un sistema economico che chiama in causa la responsabilità  del nostro Occidente ricco. Ecco allora due storie, una di popolo, l’altra di una donna qualunque. Natale ci potrebbe portare in moltissime zone del mondo dove imperversano carestia, violenza, miseria. Il Sudan è una di queste mete della sofferenza. La Campagna italiana per il Sudan riporta che: “Le agenzie internazionali lanciano nuovamente l’allarme sulla drammatica situazione umanitaria delle popolazioni in fuga dagli stati del Nilo Azzurro e del Sud Kordofan dove da mesi sono in corso violenti scontri tra l’esercito sudanese, il SAF, e le forze del SPLM-N”. Dall’UNHCR arrivano conferme allarmanti: “Il continuo blocco degli aiuti umanitari peggiora le condizioni alimentari delle persone costrette alla fuga e aumenta la generale situazione di insicurezza…” ha dichiarato, il 6 dicembre scorso, Valerie Amos, sotto segretaria generale per gli affari umanitari e coordinatrice dei programmi di emergenza delle Nazioni Unite. Mireille Girard, rappresentante dell’Agenzia per i rifugiati in Sud Sudan parla di 50 mila persone fuggite dalle zone del conflitto e rifugiatesi in territorio sudsudanese dallo scorso luglio. Nel campo profughi Yida, nello stato sudsudanese di Unity a ridosso del confine con il Sudan, l’UNCHR registra 60-100 nuovi arrivi al giorno ma le condizioni di insicurezza del campo, già  preso di mira dal SAF, hanno spinto parte dei profughi a rifugiarsi in zone più sicure. Nello stato dell’Upper Nile, nelle ultime due settimane si contavano fino a 650 nuovi arrivi al giorno. “Non ci sono segnali della fine dei conflitti in corso nel breve periodo, ha aggiunto la Amos, e questo significa che avremmo bisogno di maggiori risorse per far fronte ai bisogni della popolazione vittima degli scontri”. Ancora il sito italiano dell’UNHCR riporta in data 20 dicembre la notizia dell’inizio di un grande ponte aereo per il soccorso dei profughi sudanesi: “Il primo dei 18 voli dell’Hercules C-130 è partito questa mattina da Nairobi con a bordo 12 tonnellate di aiuti, tra cui teli di plastica, materassi, coperte, zanzariere, secchi, taniche per l’acqua e kit di utensili per cucinare. Il velivolo è atterrato intorno alle 11 ora locale all’aeroporto di Malakal, in Sud Sudan, un’importante pista d’atterraggio vicino alle località  dove sono insediati i rifugiati. Sui successivi 17 voli viaggeranno altre 272 tonnellate di aiuti prelevati dai depositi dell’UNHCR a Nairobi. Una volta a Malakal, la merce sarà  trasportata via terra nella contea di Maban – nello stato di Upper Nile – circa 300 km a nord-est. Oppure a ovest, nello stato di Unity. Il costo dei 18 voli è stimato in 1,5 milioni di dollari, mentre il valore degli aiuti è di 2,5 milioni di dollari”. Secondo l’OCHA (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle questioni umanitarie) “più di quattro milioni di persone avranno bisogno di aiuto dato che il conflitto e lo spostamento dei profughi continueranno nel 2012”. Così viene descritta la situazione: “Nuovi conflitti in sud Kordofan e nello Stato del Nilo Azzurro hanno determinato un alto livello di insicurezza alimentare e significative preoccupazioni per la salute, anche a causa di un’acuta malnutrizione nei bambini. Circa 300 mila persone in sud Kordofan e 66 mila nello Stato del Nilo Azzurro sono fuggite o colpite gravemente dai combattimenti”. L’ONU ha adottato un Piano di lavoro per il Sudan (un approfondito e ponderoso documento si può trovare in inglese in versione .pdf), mentre molte associazioni, tra cui Mani Tese, hanno da tempo lanciato progetti di cooperazione proprio nel campo alimentare. Ci spostiamo in Pakistan. Asia News riporta i riflettori su una storia che non vogliamo dimenticare. “Sarà  un altro Natale in carcere, lontana dagli affetti più cari, quello che si appresta a vivere la cristiana Asia Bibi, madre di cinque figli, rinchiusa nella sezione femminile del carcere di Sheikpura (nel Punjab), condannata a morte in base alla “legge nera” e in attesa di appello, tuttora pendente presso l’Alta corte di Lahore”. Vari siti informativi riportano le ultime notizie sul caso. Una delegazione della Masihi Foundation, l’associazione per i diritti umani che si occupa più da vicino del caso, è andata in carcere, il 19 dicembre scorso, a visitare la donna. “A causa del suo confino solitario, Asia Bibi, 46 anni”, afferma un comunicato della Fondazione, “appare notevolmente invecchiata, ha un colorito pallido, sembra molto fragile, perfino incapace di stare da sola”. Asia era scortata da due donne del personale di guardia. “Al momento dell’incontro, il suo sguardo vagava nel vuoto, non riusciva a capire cosa stesse accadendo, era completamente confusa e stupita. Per tutto il tempo della conversazione – oltre 2 ore e 20 minuti – i suoi pensieri erano alla deriva” nota con preoccupazione la Masihi Foundation. “Ha reagito agli stimoli con emozioni contrastanti, ridendo, piangendo e restando in silenzio per lunghi periodi di tempo”. “Per i primi 10 minuti – prosegue il comunicato – Asia non è stata in grado di reagire e non riusciva a capire se eravamo amici o nemici. Ha detto che nessuno si stava seriamente occupando di lei, aveva paura e sembrava molto fredda e nervosa. Non riusciva a tenere gli occhi fissi in un punto o verso un interlocutore. Le abbiamo offerto acqua e sembrava perfino spaventata dall’acqua”. Asia, con tono di voce basso e dimesso, ha ripetuto ai membri dell’organizzazione che “desidera solo tornare dalla sua famiglia” e che continua a pregare e digiunare. La donna chiede ai cristiani nel mondo “di continuare a pregare per lei”. Alla domanda su come passa il tempo, Asia ha risposto: “Ho perso il senso del tempo. Non ho l’idea di un’ora, un mese, una stagione. L’unico giorno che ricordo è il 9 giugno, il giorno più buio della mia vita, quando sono stata arrestata”.


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