Movimenti verdi fra Cina e Occidente
Diversi sono però i processi che hanno portato alla nascita di movimenti locali in campo ambientale in Occidente e in Cina. Si tratta di due scenari che rivelano punti in comune e divergenze non solo nelle poste in gioco da difendere, ma anche nel recepimento delle tematiche ambientali da parte del mondo politico e nelle modalità di mobilitazione. Uno sguardo comparato è necessario per meglio comprendere le dinamiche in gioco e azzardare alcune ipotesi su quello che sarà il futuro della Cina se si manterrà sul presente corso di sviluppo.
Ambientalismo “giovane” sul versante cinese
NIMBY. “Not In My Backyard”, non nel mio cortile. Questo acronimo, noto in Italia grazie a decenni di lotte contro opere che lo Stato ritiene di interesse pubblico ma che i cittadini osteggiano per timore di possibili ricadute su ambiente e salute, da qualche mese è un termine di uso corrente anche in Cina. Questo da quando, lo scorso 14 agosto, i cittadini di Dalian, un centro urbano nel nordest del Paese, sono scesi in piazza a migliaia per chiedere la rilocazione di un impianto chimico per la produzione di parasilene, strappando alle autorità locali la promessa che la loro richiesta sarebbe stata esaudita. La mobilitazione era nata sulla scia dell’allarme scattato la settimana precedente a causa del cedimento di una diga protettiva della fabbrica durante un tifone e la voce si era poi diffusa a macchia d’olio attraverso il web e i cellulari.
Per quanto ampliamente pubblicizzato sui media internazionali, il caso di Dalian non è certo il primo esempio di protesta NIMBY in Cina. Già quattro anni prima, nel giugno del 2007, i cittadini di Xiamen si erano mobilitati a migliaia contro il progetto di aprire un altro impianto per la produzione del parasilene non lontano da una zona residenziale. La fabbrica in questione, che aveva ottenuto il supporto dei vertici dello Stato e aveva già attratto quasi 11 miliardi di yuan di investimenti, avrebbe arricchito enormemente le casse cittadine, tanto che si calcolava che il nuovo impianto avrebbe portato al prodotto interno lordo cittadino oltre 80 miliardi di yuan, un quarto del totale di allora. Anche in quel caso però migliaia di persone si erano date appuntamento nel centro cittadino per “fare una passeggiata” e protestare pacificamente contro il piano del governo locale. Non appena i cittadini erano scesi in piazza, il web si era mobilitato per coprire la protesta e i media nazionali avevano seguito a ruota, spingendo le autorità di Xiamen a fare un clamoroso passo indietro.
Guardando ancora più in là nel tempo, molti specialisti sono concordi nell’indicare come prima grande mobilitazione ambientale in Cina il caso della resistenza contro la costruzione di una serie di dighe sul fiume Nujiang, nella provincia dello Yunnan, tra il 2003 e il 2004.
Questo evento, che giustamente viene descritto come un punto di svolta per la società civile cinese, sia per il ruolo giocato in quell’occasione dalle ONG ambientali, sia per la (temporanea) capitolazione delle autorità centrali, tuttavia non è rappresentativo di quella che è la tendenza generale nelle proteste ambientali in Cina. Mobilitazioni per la preservazione dell’ambiente naturale, del paesaggio o dell’identità culturale, rimangono eventi molto rari. Anche casi di proteste NIMBY come quelle di Xiamen e Dalian – ma si potrebbero citare anche la lotta dei cittadini di Panyu contro l’apertura di un inceneritore nel 2009 o la resistenza dei cittadini di Shanghai contro l’espansione del Maglev nel 2008 – per quanto significativi, rimangono un’eccezione più che la regola.
Di fatto, al giorno d’oggi le mobilitazioni ambientali dei cittadini cinesi si configurano come lotte “a posteriori” per la salute o, addirittura, per la sopravvivenza.
Come ha riconosciuto nel febbraio del 2009 Chen Xiwen, un importante funzionario del governo centrale, “il problema dell’inquinamento ambientale è ormai diventato una delle cause principali che portano allo scoppio di incidenti di massa tra i contadini”. Timothy Hildebrandt e Jennifer Turner in uno studio pubblicato nel 2009 hanno riportato alcuni indicatori particolarmente significativi: stando a dati diffusi dall’Amministrazione statale per la protezione dell’ambiente (oggi Ministero della protezione ambientale), nel 2005 nell’intero paese avrebbero avuto luogo oltre 51.000 proteste dovute all’inquinamento, molte delle quali dovute alle crescenti perdite economiche da parte di contadini impossibilitati a vendere i propri raccolti “tossici”; nel 2007, inoltre, il Ministero della salute avrebbe riportato che tra il 2005 e il 2007 il numero di coloro che hanno contratto il cancro a causa dell’inquinamento sarebbe cresciuto del 19% nelle aree urbane e del 23% in quelle rurali. Di fatto, indagini ufficiali condotte di recente su 7.555 progetti chimici di grandi dimensioni hanno dimostrato come ancora oggi l’81% degli impianti chimici si trovino in aree fluviali, zone densamente popolate e altri luoghi “sensibili” dal punto di vista ambientale, mentre il 45% sarebbero addirittura considerati “fonte di elevato rischio”.
Non c’è dunque da stupirsi se nell’aprile del 2009, uno speciale sui cosiddetti “villaggi del cancro” (aizhengcun), pubblicato dalla rivista Fenghuang Zhoukan, riportava una mappa della Cina con ben 110 villaggi finiti nel mirino dei media cinesi nel decennio precedente a causa dell’elevato tasso di mortalità legato all’inquinamento. A margine della mappa si notava che “questi ‘villaggi del cancro’ per la maggior parte si trovano nelle cinture territoriali intorno ai parchi industriali delle città , a valle lungo il corso dei fiumi oppure nei pressi di miniere, e subiscono così l’inquinamento delle acque reflue industriali, dei gas di scarico, dei residui, dei rifiuti della vita quotidiana, così come dei metalli pesanti e di altre cause molteplici e combinate”. I giornalisti raccoglievano testimonianze drammatiche di genitori che avevano visto i propri figli morire di leucemia uno dopo l’altro, senza poter garantire loro alcuna cura medica, né ottenere alcuna forma di assistenza dallo Stato. Il tutto, a volte, a due passi dalla capitale.
Secondo un recente studio dell’Accademia delle scienze sociali, nel biennio 2009-2010 in Cina avrebbero avuto luogo ventidue incidenti ambientali gravi – o, per usare l’eufemismo ufficiale, “con impatto elevato” (yingxiang jiaoda) – che in un modo o nell’altro hanno smosso l’opinione pubblica cinese. Di fronte a una situazione così drammatica, le proteste ambientali non possono che registrare una continua crescita.
Già nel 2009, presentando l’edizione del Libro Blu sulla Società Cinese per l’anno successivo, Li Peilin rilevava come delle dieci grandi proteste per l’ambiente accadute nel decennio precedente, ben sei avessero avuto luogo nell’anno appena concluso. Stando a più recenti stime della stessa Accademia delle Scienze Sociali, gli incidenti di massa causati dall’inquinamento ambientale stanno crescendo del 29% all’anno, una velocità ben superiore a quella degli incidenti dovuti ad altre cause. Inoltre tali incidenti sarebbero classificabili come “non di classe e non riconducibili ad interessi diretti”, dunque si tratterebbe di situazioni repentine ed altamente imprevedibili, il genere di incidente che le autorità cinesi considerano più rischioso per la stabilità sociale.
In un sondaggio condotto dal Quotidiano del Popolo nel febbraio del 2011, tra i “dieci problemi caldi del nuovo anno secondo i netizen”, l’inquinamento ambientale figurava al quinto posto, con 7.583 voti. Tra i 3.207 partecipanti ad un ulteriore sondaggio più specifico sulle questioni ambientali, il 93% riteneva che “in Cina i problemi ambientali fossero molto gravi” e, per quanto riguardava le cause di questa situazione, il 75% sosteneva che “i governi locali hanno sacrificato l’ambiente per il profitto economico”, contro un 11% che riteneva che “la gestione non è all’altezza degli standard”. Dati simili, per quanto basati su un campione decisamente non scientifico, dimostrano come in Cina l’ambiente possa facilmente trasformarsi da questione di salute pubblica a problema politico, un fatto di cui il Partito è ben consapevole.
L’esperienza occidentale
In Occidente, le prime forme di movimento in campo ambientale sono nate nella seconda metà del secolo scorso grazie ad una presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica degli effetti spesso devastanti delle attività economiche sull’ambiente.
Nel 1962 viene pubblicato il libro “Primavera Silenziosa”, una denuncia alla distruzione di interi ecosistemi causati dall’uso indiscriminato dei pesticidi: scritto dalla biologa Rachel Carson, questo libro segna convenzionalmente l’inizio del movimento ambientalista. Durante gli anni Sessanta il movimento ambientalista vive un periodo di forte crescita in seguito all’acuirsi dei problemi di inquinamento, traffico, smaltimento dei rifiuti. L’interesse verso la questione ambientale subisce però un ridimensionamento a seguito della crisi energetica del 1973, quando i problemi dell’ambiente tornano in secondo piano, cedendo il passo alle questioni della ripresa e della crescita economica.
Anche l’Italia negli anni Settanta vive un’eclissi dei movimenti ambientali causata anche da contingenze storiche interne come i gravi problemi di ordine pubblico (agitazione studentesca, scioperi, criminalità organizzata, terrorismo). Di fatto, gli anni Settanta sono caratterizzati in generale da una lenta istituzionalizzazione dei valori ambientalisti nelle politiche pubbliche: vengono approvate leggi di tutela di aria, acqua, suolo, natura; inoltre si inseriscono criteri ecologici nella progettazione di opere destinate a modificare l’ambiente, cresce la ricerca e l’educazione ambientale. Questo è anche il decennio della nascita dell’ecologia politica, che si sviluppa in due modalità : la prima riguarda l’adozione di temi ecologici nelle ideologie e nelle forze politiche tradizionali, la seconda riguarda la trasformazione dei movimenti ambientalisti in partiti definiti “Verdi”. Tale fenomeno ha avuto maggiori sviluppi in Europa dove, a differenza degli Stati Uniti, c’è la possibilità di presentare liste politiche monotematiche.
Gli anni Ottanta vedono una ripresa ed espansione del movimento ambientalista in tutto il mondo mentre si susseguono e moltiplicano le conferenze su temi ambientali a livello internazionale. Gli anni successivi vedono infine la progressiva istituzione di Ministeri dell’ambiente nei governi di tutto il mondo.
Contrariamente alla Cina, i paesi occidentali hanno una lunga tradizione di proteste per l’ambiente. Considerando i soli conflitti ambientali locali, diverse sono le poste in gioco che vengono messe in discussione da chi si oppone ad un progetto: la salute, il reddito, una specifica componente ambientale (e.g. l’aria, l’acqua, il suolo, una particolare specie animale); più recenti sono le poste in gioco riguardanti il paesaggio (sia come parte di un ecosistema sia come rappresentazione dell’identità culturale), l’ambiente in senso più ampio e l’idea di uno sviluppo diverso del territorio. Quando una protesta sposta la sua attenzione dalla locazione del progetto alla tipologia di progetto allora non si parla più di protesta NIMBY (Not in My Back Yard) ma di NIABY (Not in Anyone’s Back Yard). Non vi è più dunque un atteggiamento di rifiuto spontaneo, “epidermico” ed egoistico ma si passa ad un’opposizione più consapevole, sostenuta da una conoscenza più specifica. Stando ad una ricerca su sei città italiane, degli ottantanove comitati di cittadini censiti in uno studio del 2004, solo poco più di un quarto si mobilita secondo logiche NIMBY, mentre i restanti tre quarti tendono ad ampliare il loro raggio territoriale e/o tematico della loro protesta.
La vicenda della protesta “NO TAV” della Val di Susa in Piemonte è un caso di opposizione ad un’opera infrastrutturale cominciato nel 1990 e da allora periodicamente all’attenzione dell’opinione pubblica. La Val di Susa rappresenta una situazione d’incontro di fattori predisponenti alla manifestazione del conflitto quali la bassa qualità ambientale e l’alto grado di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte territoriali. La valle, in cui è prevista la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità , è infatti già sottoposta ad alto stress ambientale a causa dell’inquinamento dovuto ai viadotti ed alle aree industriali presenti; il degrado della zona interessata dal progetto e la partecipazione inadeguata alle procedure prevista dalla legge obiettivo 121/2001 hanno portato alla degenerazione in protesta del conflitto. Il difetto di partecipazione all’interno della procedura di valutazione del progetto è confermato dall’assenza degli stessi conflitti nei cantieri sul versante francese: grazie al lavoro di ricerca del consenso compiuto in Francia i valligiani locali sembrano essere consapevoli dei benefici che l’opera potrà apportare al loro territorio.
Nata come fenomeno locale, la protesta della Val di Susa è cresciuta diventando un movimento coordinato ed organizzato sin a livello sovranazionale che ha elaborato proposte progettuali alternative. Se all’inizio del conflitto ambientale i valori da difendere erano la salute ed un’idea diversa di sviluppo, ora – soprattutto dopo il ricorso alle forza del governo nel presidiare e difendere i cantieri nella valle – la posta in gioco è diventata la democrazia, così come la giustizia.
Di fatto, nonostante l’esistenza di procedure che prevedono la partecipazione come strumento chiave per la pianificazione territoriale (VIA, VAS, Agenda 21 Locale) in Italia le situazioni di conflittualità ambientale sono in crescita, grazie anche alla facilità di creare reti e condividere esperienze offerte da internet e nuovi media. Nel solo Veneto, i conflitti ambientali identificati all’interno dell’atlante del “malessere territoriale” (redatto nel 2011 da Legambiente ed Università IUAV di Venezia) sono 49 e, di questi, 41 sono ancora in atto. La maggior parte dei conflitti riguarda progetti che minacciano il paesaggio.
Affinità , differenze e scenari futuri
Quali conclusioni possiamo trarre da questa breve e incompleta panoramica?
Innanzitutto, possiamo notare alcune differenze sostanziali tra quello che sono le proteste ambientali in Cina e ciò che sono stati e sono ancora oggi i movimenti ambientalisti in Europa e negli Stati Uniti. Se in Occidente, questi movimenti si sono rapidamente evoluti in partiti (e poi come tali sono entrati in crisi), in Cina questa evoluzione al momento non è possibile a causa del monopolio politico da parte del Partito comunista. Per questa ragione la forma organizzativa più comune rimane quella della grassroots organization, ciò che in genere gli osservatori definiscono “ONG ambientale”.
In secondo luogo, se in Occidente l’impianto normativo in campo ambientale è nato nel tempo come risposta a pressioni della società civile e del mondo accademico, in Cina questo è stato introdotto d’autorità dall’alto, senza un reale coinvolgimento dei cittadini. Infine, se in Occidente sempre più spesso le proteste ambientali sono riconducibili alla difesa di valori profondi –la cultura e l’identità territoriale, una certa concezione di sviluppo, l’idea stessa della democrazia partecipativa – in Cina, nonostante si siano verificate mobilitazioni classificabili come NIABY, rimangono prevalenti le proteste legate a questioni ben più concrete come l’interesse economico o la salute.
Eppure, queste differenze non possono e non devono oscurare quelli che sono i punti in comune tra Cina e Occidente quando si tratta di proteste ambientali.
Innanzitutto, in Cina come nel resto del mondo un ruolo sempre più importante nelle mobilitazioni dal basso stanno assumendo i nuovi media, come si è visto nel caso della TAV in Italia e nei casi di Dalian e Xiamen in Cina. In secondo luogo, in entrambi i contesti si è assistito e si sta assistendo allo sviluppo di movimenti a-partitici e a-politici che ruotano attorno ai principi della tutela dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Infine, sia in Occidente che in Cina si è avuta una graduale assimilazione del discorso ambientalista da parte delle autorità . In Cina questo si è visto soprattutto nell’ultimo decennio, dopo l’ascesa al potere di Hu Jintao e Wen Jiabao e l’affermarsi di una nuova retorica ufficiale basata sull’idea di “società armoniosa” (hexie shehui). Non si può infatti dimenticare che una delle componenti fondamentali di questa “armonia” sta nel rapporto tra uomo e natura.
L’esperienza dei movimenti ambientali occidentali si dimostra particolarmente significativa per le autorità cinesi. A dispetto delle mille leggi adottate in materia, in assenza di canali di partecipazione democratica alla vita politica, in Cina esiste un rischio concreto che le varie istanze in campo ambientale evolvano in direzione di un movimento politico “verde” più o meno radicale. Se al momento questa eventualità sembra ancora lontana, resta da vedere se le autorità di Pechino riusciranno ad andare oltre la pura retorica e ad imprimere una nuova direzione al modello di sviluppo del paese, accogliendo gli stimoli provenienti dalla base e prevenendo che l’instabilità sociale degeneri. In fondo, lo aveva teorizzato per primo Mencio oltre duemila anni fa: le catastrofi naturali non sarebbero altro che un segnale divino secondo cui una dinastia ha perso il proprio “mandato del Cielo”, la propria legittimità a governare. Secondo questo antico ma mai dimenticato filosofo, in presenza di terremoti, inondazioni, raccolti tossici ed altre calamità , il popolo ha non solo il diritto, ma anche il dovere di ribellarsi e mettere sul trono una nuova dinastia. Parole che, dopo millenni, suonano ancora minacciose alle orecchie di coloro che siedono ai vertici del potere a Pechino.
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