Minas Conga, il tallone d’Achille del presidente Ollanta Humala

by Sergio Segio | 13 Dicembre 2011 7:03

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La lettera di rinuncia di Lerner – che ha avuto un ruolo primario nell’ascesa di Humala alla presidenza -, sebbene menzioni come necessario «l’inizio di una nuova tappa nell’attività  di governo», non mette in chiaro i motivi della rottura, lasciandoli all’intuito dei commentatori. Questi ultimi, unanimemente, indicano il recente conflitto di Cajamarca, che oppone gli abitanti della regione alle compagnie minerarie appoggiate dallo stato, come la causa di tensioni ormai insostenibili all’interno di un governo che si pretendeva di concertacià³n e agglutinava forze diverse in un orizzonte progressista.
Del conflitto in quattro province della regione di Cajamarca, dove il governo ha decretato da una settimana lo stato d’emergenza in risposta a uno sciopero generale contro le concessioni minerarie, il manifesto ha già  parlato. Il progetto della compagnia Newmont-Yanacocha, che da 18 anni estrae oro in Perù pagando imposte irrisorie e lasciando terre desertificate, è di una semplicità  geometrica: le quattro lagune andine del Cunga Qucha vanno trasvasate in un unico gigantesco bacino per poter estrarre l’oro da due lagune, usando le altre due come discariche. La compagnia assicura che, grazie al suo bacino artificiale, riuscirà  a soddisfare non solo le proprie necessità  industriali ma anche il fabbisogno idrico degli agricoltori e della popolazione urbana.
L’aspetto ecocida del progetto Minas Conga, un investimento da 5 miliardi di dollari che cancellerebbe un intero sistema lacustre, e la scarsa credibilità  della compagnia Newmont-Yanacocha – già  sanzionata per inquinare il lago Totoracocha con arsenico e mercurio e nota per perseguitare le autorità  locali e i campesinos che si oppongono ai suoi progetti -, spiegano la forte resistenza della popolazione locale, compatta nel fronte della lotta antiminera.
Alla forza della protesta regionale, iniziata il 24 novembre con il blocco indefinito di trasporti, commerci e scuole, si è sommata la determinazione delle autorità  locali, come il presidente della regione Gregorio Santos o il presidente del Frente de Defensa Ambiental di Cajamarca, Wilfredo Saavedra, che esigevano la presenza del presidente Humala per dialogare direttamente con lui. Ed è qui che l’alternativa «oro o acqua» – come la semplificano i titoli dei giornali – ha mostrato il suo potere dirompente.
Il presidente, che in campagna si è sempre detto vicino alle esigenze del Perù profondo, ha pronunciato un «Conga va» (il progetto Conga va avanti) che non è piaciuto affatto alla sua base elettorale e lo mostra più preoccupato degli eventi macroeconomici che del benessere popolare.
Il governo, che aveva fatto della propria eterogeneità  un punto di forza – la destra al timone dell’economia, la sinistra nelle politiche sociali – ha visto il vantato pluralismo trasformarsi nel suo tallone d’Achille: mentre il ministro dell’ambiente Ricardo Giesecke dava ragione agli ambientalisti e al movimento popolare sull’inaffidabilità  dello studio di impatto ambientale presentato dalla compagnia mineraria, il ministro dell’energia e delle miniere Carlos Herrera Descalzi lo dava per buono.
Le linee divergenti su come trattare l’«insurrezione» di Cajamarca hanno finito per spaccare il governo. A un primo tentativo di dialogo tra il premier dimissionario Salomon Lerner e i dirigenti regionali della protesta, è seguita una breve battuta d’arresto ai primi di dicembre, motivata dal fatto che i rappresentanti popolari volevano consultare le basi prima di firmare qualunque accordo.
Mentre il dialogo aveva fatto qualche passo verso un punto di incontro – per esempio, la necessità  di uno studio di impatto ambientale eseguito da esperti stranieri super partes – i grandi media hanno aperto il fuoco contro i rappresentanti del fronte cajamarchino, rivangando i loro precedenti «rivoluzionari» o addirittura «terroristi» (per Gregorio Santos, una militanza nel Partido Comunista del Perù-Patria Roja, per Wilfredo Saavedra l’antica appartenenza al Mrta, per cui scontò 10 anni di prigione).
Fra una sessione e l’altra del dialogo, Saavedra e alcuni altri delegati hanno subito un fermo di polizia di nove ore «per verifiche di identità » e Gregorio Santos, che è presidente regionale di Cajamarca, si è visto tagliare la disponibilità  finanziaria dal governo centrale, che ostacola così la sua amministrazione.
Poi, il 5 dicembre, il governo Humala ha imposto lo stato d’emergenza nelle quattro province in agitazione, autorizzando un eventuale uso dell’esercito per «riportare alla normalità  la vita di Cajamarca». A dichiararlo è stato il ministro degli interni Oscar Valdés, considerato l’uomo della linea dura, che domenica sera, dopo la rinuncia di Salomon Lerner, è diventato il nuovo primo ministro.
Gli opinionisti peruviani vanno cauti nel giudicare questo primo rimpasto governativo e non nascondono alcuni timori. C’è chi parla di «militarizzazione» del governo, solo perché il nuovo premier è un ex-militare – come il presidente Humala d’altronde, di cui è stato un istruttore – che ha abbandonato però la carriera da una ventina d’anni.
C’è anche chi paventa una derechizacià³n, una sterzata a destra del nuovo governo, considerando che fra i 10 ministri uscenti (su 18) predomina la componente di sinistra. Se ne vanno, tra gli altri, la ministra della cultura, la cantante e musicologa Susana Baca, e la ministra per le donne, la socialista Aida Garcà­a Naranjo.
L’ex-presidente Alejandro Toledo, il cui partito PerຠPosible partecipava con due ministri al governo uscente, ha rifiutato l’offerta di entrare nella nuova compagine governativa e si è dichiarato timoroso di una possibile «militarizzazione» del governo.
Per il nuovo primo ministro Oscar Valdés, il governo uscente «non ha saputo dare un messaggio coerente». Il suo governo, assicura, sarà  «tecnico, dialogante e senza ideologie». Il suo banco di prova, ovviamente, è Cajamarca.

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