«Vogliono ridurci al silenzio con la strategia della vergogna»

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Figlia di un avvocato dei diritti umani imprigionato per cinque anni sotto Mubarak e di una attivista e docente di matematica (entrambi di sinistra), Mona è la leader della Campagna contro i processi militari (cui l’esercito da febbraio ha sottoposto almeno 1.200 civili). Parla al telefono dal Cairo. Di sottofondo si sentono i vagiti di un bimbo. È Khaled, il nipotino: si chiama come il blogger-simbolo della rivoluzione, ed è nato il 6 dicembre. Il padre Alaa lo ha visto solo da dietro le sbarre (noto blogger anche lui, è in carcere da fine ottobre). «Ad esempio, l’altro giorno — racconta Mona — c’erano due attivisti vicino a piazza Tahrir, un ragazzo e una ragazza. I soldati hanno picchiato entrambi, ma hanno arrestato solo lei. Avrebbero potuto prenderli tutti e due, ma nel mirino ci sono le ragazze. L’esercito cerca di scuotere e spezzare lo spirito dei rivoluzionari in modi diversi. Adesso sta usando questa strategia».
A febbraio, 17 ragazze erano state sottoposte a «test di verginità » dopo l’arresto. Ma dietro porte chiuse. La «ragazza con il reggiseno blu» invece è stata umiliata in pubblico.
«È un segnale per tutti noi, per dirci che non ci sono più linee rosse. Non hanno aggredito solo giovani donne, ma anche donne anziane, donne col niqab. Hanno infranto tutti i tabù, al di là  dell’immaginazione della gente». 
Anche tu sei stata picchiata?
«Sì, il 16 dicembre. Hanno arrestato me e mia sorella minore. Ci hanno detenute in luoghi separati, lei era nel Parlamento. Mi hanno picchiata con bastoni di legno e coi loro stivali, ma non ho subito abusi sessuali». 
La strategia della vergogna dovrebbe condurre le donne, umiliate, al silenzio. Sta funzionando?
«No. Non penso che i militari afferrino l’idea che più diventano brutali più incitano la gente alla rivolta».


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