L’umanità ritrovata. Il mistero del Messiah di Handel
«Ho scelto di eseguire la versione di Dublino, quella della prima esecuzione del 1742, perché offre una visione che demitizza la partitura originale grazie a un canto che può essere considerato in più passaggi lieto, entusiastico, e a tratti più terreno»ROMA
Tradizione consolidata nei paesi anglosassoni, specie nel periodo natalizio, l’esecuzione del Messiah di Handel continua a presentarsi come occasione sporadica nelle nostre sale da concerto, accolta sempre con successo misto a sorpresa. Anche i concerti presentati dall’Accademia di Santa Cecilia, serie aperta sabato con un partecipazione e consenso vivissimi da parte del pubblico (stasera ultima esecuzione alle 19.30), hanno ribadito quanto l’oratorio handeliano, persino il più celebrato, resti creatura fascinosa ma poco familiare anche per l’ascoltatore mediamente avvertito delle stagioni di abbonamento. Molti motivi di interesse di questa esecuzione, fra cui la presenza di Fabio Biondi, figura di spicco del ‘movimento barocco’ italiano, a guidare i complessi dell’Accademia.
Che significato ha l’incontro fra coro e orchestra sinfonica moderni e un direttore noto per il suo percorso nel repertorio antico, con prassi esecutiva e strumenti originali?
Ci sono posizioni diverse nel rapporto con le orchestre moderne: per alcuni direttori sono rapporti non conciliabili, io invece sono più vicino alle posizioni di Harnoncourt, e credo che nel lungo percorso dell’interpretazione della musica antica con strumenti originali fosse ascritta una futura collaborazione con le orchestre moderne. Oltretutto nel caso dell’Accademia di Santa Cecilia si tratta di compagni di viaggio con cui ho realizzato già altri progetti molto stimolanti. Senza alcuna ipocrisia va poi ricordato che nel rapporto con le orchestre «moderne» si possono sfruttare una serie di tratti positivi, come la rapidità di soluzione di problemi tecnici, che per le orchestre che ormai usiamo chiamare «barocche» sono più complessi.
Esiste ancora oggi una ritrosia dei gruppi e dei direttori italiani nell’affrontare l’oratorio in lingua inglese, dato che si accentua dinanzi a una partitura come il Messiah, con i suoi tratti extra-musicali e la sua complessa storia interpretativa. Perché?
Credo che una certa inibizione degli italiani nei confronti dell’oratorio inglese sia ancora evidente, e sicuramente è un peccato. Prima di tutto perché non credo in quel meccanismo rigido di assegnazione su base linguistica del repertorio musicale, che obbliga gli inglesi a dedicarsi a Purcell e all’oratorio Handeliano e gli italiani a difendere soltanto l’immenso vessillo italiano. Oltretutto questo schema impoverisce le possibilità interpretative, ci priva delle peculiarità di uno stile ‘misto’ che vede emergere, in tanto Bach che in Handel, matrici italiane riconoscibili, interessanti da mettere in luce. Sicuramente abbiamo imparato molto dagli interpreti stranieri, ma la musica è universale e l’accesso deve essere aperto a tutti. La mia relazione con Handel poi data agli anni Settanta, in cui si eseguiva pochissimo, c’era giusto qualche rappresentazione del Giulio Cesare, e io leggevo avidamente la sua musica, ascoltavo fino allo sfinimento i pochi dischi disponibili. Oggi che eseguo gli oratori di Handel con frequenza, e il Messiah più di altri che magari amo perfino di più, non sento nessuna distanza o deficit di appartenenza culturale, ma al contrario mi piace anche ritrovare in quel linguaggio elementi significativi dell’esperienza dell’opera italiana.
Anche in questi concerti romani torna a eseguire la versione di Dublino del Messiah, quella del 1742. Perché questa predilezione?
Ho sempre eseguito questa versione, soprattutto per avvicinarmi alla radice primaria della creazione del Messiah, anche per sottrarlo a un’interpretazione troppo solenne, pomposa, che ha caricato l’oratorio di significati extramusicali e anche di lumeggiature interpretative non sempre appropriate. Le differenze testuali non sono molte, anche se alcune sono molto evidenti, come la quasi totale assenza di strumenti a fiato a parte le due trombe dell’Allelujah e delle arie, la forte riduzione della grande aria del basso, ma questa versione offre una visione che demitizza la partitura e la umanizza, nelle sue forze di economia più modeste, con un canto che può essere considerato in più passaggi un canto lieto, entusiastico, a tratti più terreno che spirituale. Ne esce un’immagine del far musica più quotidiana, artigianale, ma felicemente partecipata, intima e umana.
Qual è il rapporto con la spiritualità di Fabio Biondi, trovandosi dinanzi a un oratorio che per generazioni ha assunto un valore sacro che sopravanzava la stessa valenza musicale?
Domanda e nodo gordiano difficilissimo da sciogliere, per un uomo come me pieno di dubbi su questo terreno. La musica offre una via privilegiata e personalissima per ripensare i significati più alti, compresa la motivazione per il lavoro musicale che ciascuno di noi svolge nel contesto odierno. Tuttavia penso che spesso la spiritualità passi attraverso la musica per strade misteriose, e facendo l’esempio del Messiah a volte la forza evocativa e ‘sacra’ della musica emerge in zone più segrete della partitura, quelle più nascoste. Forse sono i luoghi in cui alle volte si cela la vera bellezza.
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