«Sbagliato ritirare i soldati Ora per l’Iran è campo libero»

by Editore | 23 Dicembre 2011 8:28

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WASHINGTON — «La catena di attentati a Bagdad, una catena pianificata e coordinata, e il momento in cui sono stati compiuti costituiscono un vero e proprio manifesto politico. Il messaggio al governo iracheno è evidente: l’America non è più qui a proteggervi. È troppo presto per dire se dietro gli attentati ci sia la fazione sunnita, o ci sia Al Qaeda, o un altro gruppo terroristico. Ma il fatto è che qualcuno vuole causare uno scontro armato, forse una guerra civile, tra sunniti e sciiti. È un pericolo che si può ancora sventare, ma è probabile che in Iraq riesploda la violenza e si apra una nuova crisi. Il completamento del graduale ritiro americano, con tutto il suo simbolismo, è stato un errore».
L’ex sottosegretario alla Difesa Richard Perle, uno dei fautori della invasione dell’Iraq, attribuisce l’errore alla promessa fatta da Obama alle elezioni del 2008 di disimpegnarsi entro il 2011. «Con le elezioni del 2012 alle porte — afferma — Obama ha anteposto le ragioni del voto in America alle ragioni della sicurezza a Bagdad». L’ex leader neocon, a cui George W. Bush porse spesso l’orecchio, ritiene che senza quella promessa Obama avrebbe mantenuto una presenza militare in Iraq. «L’America non era più così stanca della guerra, non subiva più ingenti perdite e gestiva in modo adeguato la situazione irachena».
Quindi a suo giudizio il ritiro totale andava rimandato?
«Penso di sì. Da noi le pressioni per il ritiro erano diminuite, il nostro Paese era ed è concentrato sull’Afghanistan. E le forze politiche a Bagdad non erano pronte al “dopo”. Non che là  le nostre truppe facessero molto, ma sarebbero intervenute in casi di emergenza. Inoltre, c’erano e ci sono tuttora altri motivi per noi per restare. Uno è che l’Iraq rischia di cadere nella sfera d’influenza dell’Iran, un nostro nemico. Un altro è che potrebbe diventare una repubblica islamica, sebbene secondo me la maggioranza della popolazione non lo voglia».
Ma l’Iraq non è già  condizionato dall’Iran?
«Lo è, e questo condizionamento è stato un altro nostro errore. Noi non abbiamo mai affrontato a muso duro il problema dell’interferenza iraniana a Bagdad. Abbiamo cercato il negoziato, facendo inevitabilmente fiasco, invece di ammonire Teheran che eravamo e che siamo sempre in grado di destabilizzarla. La situazione iraniana è tesa, ci sono attentanti anche là . Purtroppo, a meno di colpi di scena, dopo il nostro disimpegno l’influenza dell’Iran sull’Iraq aumenterà  ulteriormente».
Che cosa vuol dire? È possibile che Israele colpisca l’Iran?
«Esattamente. Io sono sempre stato convinto che se davvero l’Iran sarà  sul punto di procurarsi l’atomica, Israele lo attaccherà . Lo farà  all’ultimo minuto, come fece nell’81, quando attaccò l’impianto nucleare iracheno. Nell’81, Saddam Hussein si era accinto a iniettare materiale atomico nei suoi reattori. Israele non attese che lo facesse, perché un bombardamento a posteriori avrebbe liberato radiazioni mortali. Sapeva che l’attacco sarebbe stato politicamente accettabile solo se preventivo».
Ma questo non isolerebbe ancora di più Israele nei confronti dell’Islam?
«Non in tutto l’Islam, solo in parte. Paradossalmente, le ambizioni atomiche dell’Iran hanno spinto gli Stati del Golfo Persico a schierarsi segretamente con Israele, e non contro. Se l’impianto nucleare iraniano venisse distrutto il Golfo Persico gioirebbe di nascosto, anche se l’intero Islam denuncerebbe furiosamente l’attacco». 
Lei ha accennato al rischio che l’Iraq diventi una repubblica islamica.
«È un rischio che corre l’intera primavera araba. Nei regimi autoritari o totalitari mediorientali, il radicalismo religioso è stato represso per anni anzi decenni ma non è stato eliminato. È impossibile prevedere che cosa succederà  adesso in Iraq come in Egitto. Per questo occorre che l’America, e anche l’Europa debbo sottolineare, si impegni di più in Medio Oriente. Non è troppo tardi. Non si tratta di mandare daccapo truppe, ma di agire sui piani politico, diplomatico ed economico».
Parlando di errori, non fu un errore invadere l’Iraq?
«Non a mio parere. La guerra dell’Iraq ha liberato il mondo da Saddam Hussein, un risultato che viene troppo sottovalutato. Fu sferrata perché si pensava che il raìs possedesse armi di sterminio. Risultò il contrario, ma fu colpa dell’intelligence. Nonostante le vittime civili, io appoggiai la guerra perché generò voglia di libertà  e democrazia in tutto il Medio Oriente. Ma criticai la gestione dell’Iraq dopo la vittoria, come lei ha già  evidenziato. È innegabile che facemmo alcuni errori. Vi ponemmo parzialmente rimedio nell’ultimo biennio, avremmo dovuto insistere. La lezione, ripeto, è che oggi noi possiamo solo tentare di aiutare i popoli arabi, quello iracheno in testa, a prendere la strada giusta».

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