L’occhio di Istanbul fra immagine e parola

by Editore | 29 Dicembre 2011 7:22

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ISTANBUL – A Beyoglu il Cafe Ara è famoso quanto il suo proprietario, Ara Gà¼ler (classe 1928), soprannominato «L’occhio di Istanbul». Lì accanto, al n. 4, sul portone di legno, un pannello di vetro opaco reca inciso in lettere dorate il cognome Gà¼ler. L’intero edificio ospita l’archivio del fotoreporter (circa due milioni di scatti), una sorta di museo personale che conserva, passo dopo passo i momenti significativi di una professione iniziata nel 1948: dieci anni dopo era fotoreporter per testate come Time Life, Paris Match e Der Stern. Fotografie sottovetro, esaltate nel loro status di opere d’arte dalle cornici di legno talvolta dorato, su tutte le pareti degli ambienti al primo piano. Coloratissimi i ballerini di danza Kathakali del Kerala, con i loro volti truccati di verde, giallo, rosso, bianco e nero. Al bianco e nero è invece affidata, la memoria del suo paese.
Emozionante vedere da vicino una foto come Conversazione in un caffé di Beyoglu (1958), frammento di un quotidiano prevedibile nella sua teatralità . Tre uomini parlano tra loro, seduti sugli sgabelli di paglia, mentre un altro prepara il caffè alla turca e il ragazzo di bottega aspetta in piedi con il vassoio vuoto. La conoscenza del lavoro di Ara Gà¼ler passa anche attraverso immagini come questa, un tempo diffuse nel formato cartolina. È a suo agio, il fotografo, circondato dalle sue fotografie che raccontano, non senza un velo di nostalgia, miserie e nobiltà  della sua Istanbul, con la presenza dominante del mare, il ponte di Galata, i barconi di legno, i gabbiani nei quartieri di Karakà¶y, Eminà¶nà¼, e il profilo monumentale delle moschee viste dal Bosforo.
Molte di queste immagini sono raccolte nel volume Istanbul (2009), con testo di Orhan Pamuk, edito in Italia da Mondadori. «Sa in quante lingue è pubblicato? – mi chiede Ara Gà¼ler, quando gli mostro il libro in italiano – Otto!». 
Sul tavolino basso, davanti alla poltrona, il fotografo prende in mano e sfoglia Seven Landmarks of the World (2002) e il più recente Visages du XXe siècle, soffermandosi sui ritratti dei registi Arnold Newman, Tennessee Williams, Alfred Hitchcock, Sergei Parajanov. «Conosce quest’uomo? È Henry Luce il mio grande boss di Life Magazine. E questo, invece? È Josef Koudelka, un mio grande amico. E lei è Imogen Cunnigham, la adoro! Una grande fotografa».
Ironico, si accarezza la barba canuta e poi butta lì risposte con un disinvolto – ma consapevole – gusto provocatorio, come quando racconta l’incontro con Salvador Dalì, nel 1971, nella stanza 101 dell’hotel Maurice di Parigi dove l’artista spagnolo, insieme alla moglie Gala, ha occupato per anni una suite. Il suo ritratto a colori, stampato in grande formato è sulla parete dell’ingresso, accanto a quello di Chagall. C’era sempre tanta gente di tutte le età  da lui, perché c’era da mangiare per tutti. Anche Ara Gà¼ler passava di lì quasi ogni giorno. Voleva fotografarlo in una classica posa a tu per tu. «Va bene, domani alle 10 e 30. – mi disse – Ma quando arrivai, c’erano quattro giovani giornalisti. Rimasi interdetto, ma lui mi disse sottovoce di non preoccuparmi. Quando arrivava il proprio turno, chiedeva a ognuno di loro quale è la formula del bitume e dato che non avevano risposta da dargli, li mandava via. Non senza aver aggiunto che se lui prende il bastone e lo intinge nel bitume vale centomila dollari, se lo fanno gli altri non vale nulla e rimane solo una canna sporca!”.
Nel 1950 inizia la carriera di fotogiornalista per il quotidiano Yeni Istanbul. Cosa ha spinto un giovane studente di Economia a intraprendere un percorso diverso? 
Prima ho voluto fare il regista, lavorando molto nel cinema. Ma la fotografia offre più possibilità  di gettare sguardi sul mondo, per cui ho seguito il mio sogno di visitare nuovi paesi. Mio padre, poi, farmacista era amico di Muhsin Ertugrul, fondatore del teatro turco moderno. Non a caso ho iniziato proprio con il teatro…
Infatti, ai tempi della scuola superiore frequentava il corso di drammaturgia tenuto da Muhsin Ertugrul Bey. In che modo quest’arte ha influenzato la sua visione?
Il teatro non è solo uno spettacolo, permette di guardare dentro l’animo umano. Cominciamo così a sviluppare in maniera consapevole i nostri sensi. 
Determinante, nel 1961, l’incontro con Henri Cartier-Bresson e Marc Riboud che le offrirono l’opportunità  di entrare a far parte dell’agenzia Magnum…
Era inevitabile che ci fosse un interscambio tra noi. Cartier-Bresson mi ha mostrato l’obiettivo. Ci incontrammo a Parigi, a casa di Romeo Martinez. Lui conosceva le mie interviste pubblicate su Life. Ovviamente non ero così famoso come lui!
Quali sono state, secondo lei, le potenzialità  e i limiti della Magnum?
La Magnum è una cooperativa, non ci sono restrizioni, abbiamo sempre lavorato con libertà . Quando ci sono entrato eravamo in sedici, adesso i fotografi sono settantotto. 
Fotografa sia in bianco e nero che a colori, ma è famoso soprattutto per gli scatti in b/n di Istanbul. Ha un valore simbolico l’uso di questa tecnica?
Semplicemente quando ho cominciato non c’era il colore. Adesso non c’è rivista, in ogni parte di mondo, che voglia il bianco e nero.
Nel lavoro sulla sua città  è evidente un punto di vista di matrice neorealista. Pensa che oggi questa visione sia ancora attuale?
La mia visione è sempre stata neorealista. Istanbul I love you! 
Ha collaborato anche con lo scrittore Orhan Pamuk per la realizzazione del volume «Istanbul»… 
Lui è un realista sociale, la nostra visione è uguale. 
Ha usato la macchina fotografica per fissare i ricordi del quotidiano in Turchia, in qualche modo pensa che le sue origini armene abbiano contribuito a dare significato al concetto di memoria?
Sono un figlio di Atatà¼rk. Avevo cinque anni quando questa repubblica è stata costruita. Non mi sono mai sentito diverso. Siamo in un’era in cui è stato chiuso questo episodio doloroso della storia. 
Tra le numerose foto-interviste cha ha «collezionato», ci sono anche maestri della fotografia come Bill Brandt, Imogen Cunningham e Ansel Adams. Quale è, per lei, la relazione tra immagine e parola?
Sono un giornalista, un fotoreporter, non certo un fotografo di studio. La relazione tra immagine e parola è fondamentale.
Ha documentato anche la guerra…
Ho fotografato quattro guerre! La prima è stata l’invasione americana di Beirut, poi quella del Borneo, tra cristiani e musulmani, la Palestina e la guerra d’Eritrea. Quest’ultima è stata particolarmente dura, sono rimasto diciotto giorni, perché andai con un convoglio di munizioni che faceva avanti e indietro ogni diciotto giorni. Non c’era da mangiare né da bere, tanto che ognuno di noi – eravamo tre fotoreporter – andavamo a caccia di salamandre per cibarci…
Ha mai avuto paura?
Certo! C’è sempre il rischio di non poter tornare indietro.
C’è uno scatto che le piacerebbe fare, ma che ancora non ha fatto?
La vita è molto bella, ho potuto fotografare un buon cinquanta per cento di questa meraviglia. Vorrei fotografare anche il resto e, un giorno, arrivare a farmi anche un autoritratto…

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