Lo juche allo schermo
In realtà non è proprio così, ci sono studi sul cinema nordcoreano (Antoine Coppola, Le cinéma asiatique, L’Harmattan, 2004), e film conosciuti nel mondo come Forever in our memory (’99), anche perché il Caro Leader, come chiamavano Kim Jong-il, era noto per essere un amante del cinema, si dice che avesse una collezione sterminata di film (15000 titoli), con predilezione per quelli americani ovviamente tutti vietati (da lui stesso) nel paese.
La Corea del nord poi, al di là di una sua propria produzione, e di un festival del cinema che si svolge nella capitale Pyonyang, è presente, anche se in modo fantasmagorico, nelle immagini del cinema coreano del sud. La divisione del paese infatti, è uno di quei tabù intorno ai quali si costruisce l’incoscio collettivo col peso doloroso di esperienze vissute – famiglie divise, parenti scomparsi – e della sottile ma intensissima angoscia di un perenne stato di pericolo, cavalcato dai due paese nemici, lungo il confine più armato al mondo. Tra queste pieghe, e i molti non detti, rientra la presenza americana, un altro tabù molto ingombrante, e una serie di mitologie che sedimentate nel tempo, tornano come i fantasmi cinesi in altre forme: eros, violenza quotidiana, massacro dell’elemento femminile, logica di classe, conflitto intimo e viscerale.
Prendiamo un film come J.S.A. – Joint Security Area (2000) di Park Chan-wook, uno dei nomi di punta del cinema sudcoreano (Old Boy è diventato un cult planetario), ci porta nel cuore della lacerazione tra i due paesi, di una storia rimasta sospesa come quel sentimento di paura che li tiene stretti. Sul confine tra le due Coree, nel villaggio di Panmunjom, davanti al «ponte del non ritorno» sul 38° parallelo dove si fronteggiano i due eserciti a protezione dei reciproci confini, vengono ammazzati due soldati nordcoreani. Il sospetto è un soldato sudcoreano trovato ferito lì vicino. Tensione altissima, quasi da collasso diplomatico. Una commissione neutrale, svizzero-svedese, viene incaricata di indagare, al suo interno c’è anche il maggiore Oh, una donna di origini coreane … La verità sarà molto più complessa, perché alle origini di quel delitto ci sono i rapporti di amicizia nati tra i soldati di fronti opposti. Una bella provocazione da una parte e dall’altra, perché su certi temi anche la Corea del sud non è così democratica … E intanto affiora anche il passato della donna in commissione, figlia di un nordcoreano imprigionato a sud anni prima, altro tema ricorrente nel cinema sudcoreano.
Kim Jong-il prima di prendere il posto del padre, Kim Il-sung, era stato ministro della cultura, e il suo obiettivo principale era proprio rifondare il cinema nordcoreano nello spirito della rivoluzione e dello juche. Per questo era onnipresente sui set, e alcuni lo accreditano come il regista di classicinazionali quali The Flower Girl (69) e Sea of Blood (72).
Negli anni Settanta scrive un trattato, Sull’arte del cinema, 330 pagine che diventano il manuale a cui si deve conformare il perfetto regista nordcoreano. Solo che nessuno ci riesce, o almeno nessuno produce risultati per lui soddisfacenti, tanto che Kim Jong-il fa rapire il regista sudcoreano Shin Sang-ok costringendolo a girare per otto anni film di propaganda – si rifugeirà poi negli Stati uniti con lo pseudonimo di Simon Sheen.
«Prima di immaginare cinquecento cavalli un regista dovrebbe preoccuparsi di ritrarre personaggi coraggiosi che si sollevano contro l’invasione dello straniero descrivendo la lotta in modo efficace». Perciò eroi rivoluzionari, lotta di classe, propaganda, feroce critica a Hollywood sono i punta fermi del saggio. Il cinema dello juche deve avere «un grande valore ideologico e artistico, e contribuire in modo efficace a nutrire gli uomini dell’ideologia unica del partito».
Tra melodrammi contadini, animazione, forse il settore più vitale, produzioni straniere (che vengono realizzate negli studi della capitale), un piccolo avvenimento è stato Il diario di una studentessa di Jang In-hak (2007), ritratto di una adolescente, che è stato un successo clamoroso ai botteghini nazionali (quasi otto milioni di entrate, un terzo della popolazione), uscito anche in Francia, e con recensioni internazionali che ne sottolineano la libertà di stile (nei limiti del possibile) rispetto alla committenza ideologica.
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