by Sergio Segio | 4 Dicembre 2011 8:19
DURBAN. Ambasciatore della Bolivia presso le Nazioni Unite fino allo scorso luglio, Pablo Solon è stato per molti anni attivista impegnato nella difesa dei diritti umani e sulle questioni indigene ed ambientali. Quest’anno è stato il vincitore del Premio Internazionale per i Diritti Umani assegnato da Global Exchange. Lo incontriamo a Durban, dove è arrivato per tenere una serie di incontri con la società civile.
L’anno scorso era a Cancun come negoziatore all’interno del vertice ufficiale, quest’anno la ritroviamo qui allo «Spazio dei Popoli». Cos’è accaduto?
Ho abbandonato le mie funzioni presso l’Onu circa sei mesi fa. La ragione di questa scelta è personale: l’età e le condizioni di salute di mia madre. Sono intimamente convinto che se non si è capaci di prendersi cura della propria madre non si può pensare di poter difendere la Madre Terra. C’è da dire che tornato in Bolivia ho trovato anche un’altra situazione difficile: il conflitto sulla costruzione dell’ormai nota autostrada che attraverserebbe il Tipnis – Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure. Il Tipnis è un’area boschiva vergine straordinariamente biodiversa in cui vivono diversi popoli indigeni. Ho espresso chiaramente la mia contrarietà a quest’opera, chiarendo che il modo in cui veniva portato avanti il progetto non era coerente con la posizione internazionale assunta dalla Bolivia in riferimento ai Diritti della Madre Terra e dei Popoli indigeni. Credo fermamente nel lavoro che ha fatto la Bolivia negli ultimi anni a livello internazionale, ad esempio con la posizione assunta a Cancun e con i lavori della Conferenza dei Popoli sul clima di Cochabamba dell’aprile 2010. Questa prima settimana di negoziazioni della Cop17 non fa prevedere nulla di buono per gli esiti finali. In base a ciò forse è il caso di chiedersi se siano summit come questi il luogo giusto per discutere e prendere decisioni su temi così urgenti e importanti. Così come sono organizzati questi summit non possono affrontare efficacemente alcuna questione. Anzi, andiamo di male in peggio. Cancun è stata peggiore di Copenhagen e Durban sarà peggio di Cancun. Il tema di fondo è che i paesi industrializzati, che dovrebbero essere i primi ad elaborare proposte concrete per ridurre le emissioni, sono orientati ad assumere impegni insignificanti e non vincolanti, che finiranno di cuocere il pianeta e in particolare l’Africa. L’unico modo di ribaltare questa situazione è lo sviluppo di un movimento globale che metta in rete tutti, dai movimenti indigeni alle reti per la giustizia climatica, a movimenti come Occupy Wall Street e come gli indignados europei. In tal senso è certo importante l’azione locale, ma senza un’assunzione di responsabilità a livello globale non riusciremo a far fronte alla minaccia climatica.
Negli ultimi vertici è emersa la tendenza dei governi a voler finanziarizzare la crisi climatica, attraverso soluzioni che rispondono a logiche di mercato. I diritti della natura possono aiutare a fare in modo che la crisi venga affrontata e non utilizzata come ulteriore occasione di nutrimento per il sistema finanziario.
È esattamente così. Non contenti dei meccanismi di cosiddetto sviluppo pulito creati a Kyoto, i governi stanno adesso provando a creare un meccanismo di mercato per la gestione dei boschi che si chiama Redd e contemporaneamente a rafforzare i sistemi di mercato del carbonio. È invece promuovendo i Diritti della Natura che possiamo riuscire a cambiare radicalmente approccio: se ci troviamo in questa situazione è perché abbiamo trattato la natura come fosse un oggetto alla nostra mercé, da trasformare, inquinare, sfruttare. Dobbiamo tornare a riconoscerci come parte di un sistema, di una comunità complessa entro la quale non è possibile che ad avere diritti siano solo gli essere umani. Per ristabilire un equilibrio con la Madre Terra è necessario che tutti gli elementi del sistema abbiano diritti.
Quale crede possa essere il cammino da percorrere per arrivare ad un cambiamento reale?
Alla radice della crisi strutturale che viviamo e che include sia quella economica che quella ecologica c’è una causa chiara: è il sistema capitalista. L’1% della popolazione mondiale controlla le risorse di tutto il pianeta.
Per risolvere i gravi problemi che abbiamo dobbiamo spezzare questo monopolio e l’unico modo per farlo è che il 99% recuperi il controllo sui governi, per arrivare a definire politiche di redistribuzione a favore della maggioranza degli esseri umani e a difesa e protezione del pianeta, l’unico che abbiamo.
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