by Sergio Segio | 14 Dicembre 2011 7:31
FIRENZE — Il fratello minore di Samb Modou si accovaccia a terra, le mani chiuse tra i capelli crespi, altri senegalesi arrivano e si stringono intorno a lui cercando di proteggerlo, consolarlo. Ma il ragazzino è disperato e singhiozza forte tra le bancarelle di piazza Dalmazia: «Adesso io devo trovare la forza di alzare il telefono e chiamare nostra madre in Africa», grida ai suoi amici mentre il corpo di suo fratello è già stato portato via insieme a quello di Diop Mor, l’altro ambulante ucciso dal pazzo di CasaPound. «Capito? — continua il ragazzino — Devo dirle che Samb Modou non c’è più, che il suo figliolo più grande è morto e non tornerà . Lui lavorava come me, tutti i giorni dalle 8 del mattino alle 7 di sera, al mercato, per riuscire a mandare un po’ di soldi a casa. Ed ecco com’è finita, ammazzato peggio di un animale».
C’è tanto dolore, un’onda cupa di smarrimento attraversa la piazza dei senegalesi. Un massacro così, chi poteva immaginarlo? «Italiani assassini», «razzisti», «maledetti», «Italia vergogna». Alle tre del pomeriggio da piazza Dalmazia parte un corteo spontaneo.
Intanto si è saputo che a San Lorenzo la mattanza è continuata, altri due immigrati sono stati presi di mira dai colpi di pistola. E allora ecco che la rabbia esplode. Arrivano a centinaia da tutto il circondario: i senegalesi delle concerie di Santa Croce, quelli delle case vinicole del Chianti, gli studenti africani di Pisa, altri ambulanti. Quasi tutti regolari, col permesso di soggiorno e un contratto di lavoro in tasca. «Neri ma non in nero», raccontano orgogliosi, dopo anni di faticosa integrazione.
In via Cerretani, tra la stazione di Santa Maria Novella e il Duomo, l’indignazione raggiunge il suo apice: alcuni motorini parcheggiati vengono gettati a terra, cestini e cartelli stradali divelti. Sono atti isolati, per fortuna. Man mano che il corteo si avvicina al centro storico, però, i commercianti abbassano le saracinesche, i clienti si riparano nei negozi e le vetrine di lusso dello shopping fiorentino tremano di paura. Immagini che rimandano con la memoria alla marcia del ’90 davanti al Battistero, quando centinaia di senegalesi a Firenze proclamarono lo sciopero della fame chiedendo il permesso di soggiorno. Sembrava un tempo ormai remoto. E invece in piazza della Repubblica la polizia carica e un ragazzo nero viene colpito da una manganellata. Vengono a dar manforte gli antagonisti dei centri sociali, quelli del Centro Popolare Autogestito e gli altri di Next Emerson.
«Ma davvero quell’assassino è morto? Vogliamo la verità », grida un ragazzo con i capelli rasta, Diavo Abdore. «Voi italiani quando si è saputa la notizia avete subito parlato di un regolamento di conti — protesta Sylla Matar — Ma i senegalesi sono pacifici, non sono banditi e non s’ammazzano tra di loro. Perciò la nostra protesta non si ferma, sabato in piazza Dalmazia faremo una grande manifestazione e saremo ancora di più». «Anche noi siamo cittadini italiani — aggiunge furibondo Ousmane, infermiere, da 21 anni in Italia — Ma voi non ci trattate alla pari».
Davanti al Battistero il presidente della Regione, Enrico Rossi, prova a dialogare con quella folla inferocita: «Io vi considero fratelli, la Toscana sarà con voi». Ma viene contestato, fischiato e alla fine costretto a desistere. Pape Diaw, portavoce della comunità senegalese fiorentina (almeno 7 mila unità e altre 10-12 mila sparse tra Pisa e Pontedera), ex consigliere comunale qui a Firenze, prima con Rifondazione e oggi con Sel, racconta che negli ultimi tempi navigando in Rete, su Facebook, aveva percepito un odio crescente verso gli immigrati. «Una destra feroce, fascista e razzista ha avvelenato il clima — accusa —. Abbiamo vissuto dieci anni di politiche sbagliate. E infatti vedete? L’altro giorno è stato bruciato un campo Rom a Torino e ora c’è stato questo massacro a Firenze. Speriamo che sia l’ultima volta».
L’imam Elzir Izzedin, palestinese dell’Ucoii, arriva in piazza Duomo verso le sette di sera, quando i tumulti si sono ormai placati, monta su una balaustra di ferro e arringa la gente con un megafono bianco. Invoca l’aiuto di Allah per guarire i feriti e invita alla preghiera «per i nostri fratelli shahid, martiri e morti innocenti».
Il console onorario della Repubblica del Senegal in Italia non sa darsi pace: «Nel 1962 proprio a Palazzo Vecchio il presidente del Senegal Leopold Sedar Senghor incontrò qui a Firenze il sindaco Giorgio La Pira e insieme annunciarono di voler creare un ponte tra i due popoli. In lingua wolof, la lingua del Senegal, il concetto di accoglienza si esprime con una parola: Teranga. Ecco, mi sento di dire che fino a oggi questa parola a Firenze aveva avuto un senso».
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