L’Italia e la corruzione: in classifica dopo il Ruanda

by Sergio Segio | 2 Dicembre 2011 8:00

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Alla pari con le isole Samoa, la Macedonia, il Ghana. Alle spalle di Paesi come Namibia, Ruanda, Portorico… Non è solo una umiliazione: è un problema economico. Perché dovrebbero investire da noi?
Capiamoci: Transparency non è la Bibbia. E non è detto affatto che l’Italia sia davvero più corrotta di Cuba, della Turchia o della Lettonia. Diciamo di più: è lecito dubitarne. Ma vale per questa come per le classifiche internazionali sulle nostre università , drammaticamente staccate dalle posizioni di testa. Ammesso che le graduatorie, fondate sulla percezione degli operatori economici o dei docenti universitari, siano con noi punitive, segnalano un guaio molto grave: godiamo di una pessima reputazione.
La stessa serie storica della hit parade dei Paesi meno corrotti elaborata da Transparency dice tutto. Le prime dieci nazioni virtuose di oggi (in ordine: Nuova Zelanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Singapore, Norvegia, Olanda, Australia, Svizzera e Canada) sono esattamente le stesse (chi un po’ più avanti, chi un po’ più indietro) del 1995. E un po’ tutta la classifica è piuttosto stabile. Solo noi andiamo spaventosamente a ritroso: eravamo quindici anni fa, mentre si svolgevano molti processi per Tangentopoli, al 33° posto. Siamo scesi dieci anni dopo, nel 2005, al 40°, nel 2008 al 55°, nel 2009 al 63°, nel 2010 al 67°. E quando pareva che già  fossimo caduti così in basso da non poter precipitare ancora siamo sprofondati quest’anno al 69° posto.
Una sorpresa? Per niente. Tanto che un anno e mezzo fa, nella scia di una serie di scandali, il governo Berlusconi che aveva sostanzialmente svuotato tra le polemiche l’Alto commissariato per la lotta alla corruzione voluto dall’Onu, si paracadutò a varare una legge anticorruzione salutata, tra squilli di tromba e rullare di tamburi, come la più severa mai varata a memoria d’uomo. «È una stretta decisiva e definitiva contro un malcostume che talvolta ha inquinato l’amministrazione della cosa pubblica, dello Stato, il Parlamento e la politica stessa», tuonò Maurizio Gasparri. «Abbiamo dimostrato che la nostra forza politica, a differenza del passato, nella lotta alla corruzione vuole essere inflessibile», confermò Ignazio La Russa. Sì, ciao. Sparati nel firmamento i fuochi artificiali, hanno riposto tutto in un cassetto.
Anche i clamorosi arresti ai vertici della Regione Lombardia non hanno fatto che confermare ieri la sensazione di una poltiglia appiccicosa e ammorbante. La stessa descritta l’anno scorso da Beppe Pisanu che, forte dell’esperienza accumulata al Viminale, spiegò in un’intervista al Corriere che no, la situazione non era per niente paragonabile a quella precedente allo scossone di Mani Pulite: «Per certi versi siamo oltre. Allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti. Oggi è la coesione sociale, è la stessa unità  nazionale a essere in discussione, al punto da venire apertamente negata anche da forze di governo. Si chiude l’orizzonte dell’interesse generale e si aprono le cateratte dell’interesse privato, dell’arricchimento personale, della corruzione dilagante».
Ricordiamo com’era, prima di Tangentopoli? Nel solo 1991 che precedette il cataclisma, disse uno studio del centro Einaudi di Torino, il «presumibile ammontare dei maggiori costi sostenuti dallo Stato per effetto della discrezionalità  della decisione politica», cioè delle bustarelle, era stato tra i 4.500 e 6.500 miliardi. In un solo anno. Per non dire del decennio precedente, quando i partiti e i tangentari più insaziabili si erano impossessati «da un minimo di 46 mila a un massimo (più probabile) di 110 mila miliardi». Una somma enorme. Che aveva inciso sul debito pubblico: «Sui circa 150 mila miliardi di deficit 1991 la quota imputabile alle tangenti dell’anno e agli interessi sul debito cumulato a causa delle tangenti dal 1980 in poi equivale a 15-25 mila miliardi, ossia dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo». Un settimo, forse un sesto.
Pareva che quell’ondata che spazzò via la Prima Repubblica dovesse essere di monito. Errore. Lo ha dimostrato con i suoi studi Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di quella stagione: «È tutto come prima, peggio di prima». Lo ha confermato ufficialmente il procuratore generale della Corte dei conti, Furio Pasqualucci, nella relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2008: «Il fenomeno della corruzione all’interno della Pubblica amministrazione è talmente rilevante e gravido di conseguenze in tempi di crisi come quelli attuali da far più che ragionevolmente temere che il suo impatto sociale possa incidere sullo sviluppo economico del Paese anche oltre le stime effettuate dal servizio Anticorruzione e trasparenza del ministero della Funzione pubblica, nella misura prossima a 50/60 miliardi di euro all’anno costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini». Sessanta miliardi: ci risparmieremmo una finanziaria di lacrime e sangue.
Non è solo una questione di moralità . C’è anche quella. E pesa. Ma non è solo una questione di moralità . Lo stesso Benedetto Croce, in «Etica e politica», scriveva nel 1930: «È strano che, laddove nessuno — quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica — chiede un onest’uomo, ma tutti chiedono e cercano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina, nelle cose della politica si chiedano invece non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura. Ma che cos’è dunque l’onestà  politica? L’onestà  politica non è altro che la capacità  politica: come l’onestà  del medico è la sua capacità  di medico, che non rovina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Qual è il guaio? Che non abbiamo avuto in questi anni né l’una (la capacità  politica) né l’altra (l’onestà ) e paghiamo per questo un prezzo spropositato.
Nella paralisi dei cantieri delle infrastrutture, che da noi costano immensamente più che negli altri Paesi europei. Nei ritardi sul versante delle riforme indispensabili, che sottrarrebbero alla cattiva politica il potere di interdizione e di ricatto. Nel crescente allargamento della forbice tra Nord e Sud. Nella montante sfiducia verso di noi non solo dei bucanieri della speculazione internazionale ma anche degli investitori tradizionali.
Basti rileggere il rapporto Svimez del 2007: «Negli anni 2000-2005 l’Italia ha ricevuto il 4,2% degli investimenti esteri in entrata nell’Unione Europea, meno di un terzo di quelli di Germania, Gran Bretagna e Francia e poco più della metà  di Olanda e Spagna». Quanto alle Regioni del Mezzogiorno, «hanno ricevuto nel 2006 appena lo 0,66% degli investimenti esteri entrati in Italia». E da allora, con la crisi, le cose sono addirittura peggiorate. A danno ulteriore del Sud, individuato a torto o a ragione come un’area in cui, all’arretratezza delle infrastrutture si somma il costo di una politica esageratamente ingorda. Lo conferma il dossier 2001 sul «grado di multinazionalità », cioè il rapporto tra addetti in imprese italiane di proprietà  estera e addetti complessivi: «Centro-Nord 6,2%, Mezzogiorno 1,2%, Calabria 0,4%, Sicilia 0,3%». E si torna alla domanda iniziale: perché mai uno straniero dovrebbe venire a investire qui, per usare una vecchia battuta berlusconiana, con la bustarella in bocca?

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