Libri, amore e ironia quegli ultimi giorni passati con Hitchens

by Editore | 20 Dicembre 2011 6:54

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Il posto dove ha trascorso le ultime settimane della sua vita ha poco a che fare con i libri. Ma Christopher Hitchens ne ha fatto qualcosa di suo. Il Medical Center di Houston, vicino al centro della città , è un assembramento di torri, un po’ come La Défense di Parigi o la City di Londra. Qualcosa come un comprensorio finanziario ove la moneta corrente è la malattia. 
È un complesso che concentra competenze mediche e tecnologiche di altissimo livello mondiale. La più alta delle sue torri è la negazione di un possibile dio benigno: la scritta al neon che la sovrasta indica il reparto di oncologia pediatrica. Questo «dirupo tagliato netto» – come Larkin descrive in un suo poema la torre di un ospedale – si innalza proprio di fronte all’edificio del reparto di Christopher, un po’ meno alto, riservato agli adulti.
Non c’è mai stato un malato più facile da visitare in un ospedale. Non voleva né uva né fiori, solo conversazione e presenza. I silenzi erano tutti utili. Gli piaceva trovarmi ancora lì quando riapriva gli occhi dopo uno dei suoi frequenti momenti di torpore, indotti dalla morfina. La sua malattia non lo interessava. Non ne voleva parlare. 
Al mio arrivo dall’aeroporto, l’ultima volta che sono andato a trovarlo, ha visto spuntare dalla mia borsa un piccolo libro, e ha subito allungato la mano.Era London Under di Peter Ackroyd, una storia sotterranea della città . Per una decina di minuti abbiamo celebrato il suo autore; non ne avevamo mai parlato prima, ma sembrava che Christopher avesse letto tutti i suoi libri. Solo dopo ci siamo salutati. Quel libro, lo voleva – mi ha spiegato – perché era piccolo e poteva tenerlo in mano senza stancarsi il polso. E subito si è messo a scrivere note a matita sui margini. Lo avrebbe finito in serata. Avrebbe anche potuto farne una recensione, ma doveva scrivere un pezzo lungo su Chesterton. 
Ecco come si svolgevano queste visite: si parlava di libri e di politica; a un certo punto lui si appisolava, mentre io leggevo o scrivevo; poi si ricominciava a parlare, dopo di che ci mettevamo a leggere tutt’e due. La stanza del reparto di cure intensive era ingombra di macchinari lampeggianti e di tubi, che però sembravano quasi decorativi. I libri, il giornalismo e le idee che li sottendono avevano conquistato quel luogo sterilizzato, lo avevano riscaldato e nobilitato trasformandolo in qualcosa come una bella biblioteca universitaria; e ci proteggevano dalla lugubre visione delle torri oltre le vetrate, di quel mondo ove amori e opportunità  – scrive Larkin – sono «irraggiungibili da ogni mano che da qui si tende».
Nel pomeriggio lo aiuto a scendere dal letto. L’idea è di passeggiare su e giù per il reparto, tanto per fargli muovere le gambe. Mentre si appoggia a me col poco peso residuo del suo corpo tremante, gli dico – solo perché so che lo sta pensando: «Prendi il mio braccio, vecchio rospo!» E lui mi fa quel mezzo sorriso di sbieco che ricordo così bene, lo stesso di quando era in buona salute. Un sorriso di intesa o di anticipazione, come quando a fine pomeriggio ci si preparava a una «serata vergognosa», cioè di piacere, o anche «da sodali» – che era una delle sue espressioni preferite. 
Sarà  stato per questo che due ore dopo gli ho letto ad alta voce Whitsun Weddings (I matrimoni di Pentecoste). Christopher mi ha chiesto di farlo anche per suo figlio Alexander – una presenza preziosa in quella stanza, nelle ultime settimane – e per sua moglie Carol Blue, che si batteva come una tigre per la sua causa medica. Si era accanita contro certe lentezze burocratiche dell’ospedale con tanta ferocia che qualcuno aveva chiamato i guardiani per farla buttare fuori. Per fortuna aveva finito per affascinarli e disarmarli. 
Ho letto il poema, e al celebre finale: «A sense of falling, like an arrow-shower / sent out of sight, somewhere becoming rain» (Un senso di caduta, come scroscio di frecce / mandate via a perdita d’occhio/ da qualche parte trasformate in pioggia) Christopher ha mormorato dal suo letto: ««È così cupo, orribilmente cupo». Io non ero d’accordo – e non per il desiderio di tirarlo su di morale. Anche se certo il viaggio giunge al termine, e le coppie di novelli sposi si dividono per andare verso destini separati. Ma lui insisteva sulla sua idea, e dopo una settimana, quando già  ero di ritorno a Londra, ancora ne discutevamo scambiandoci battute via e-mail. Ecco come esordiva uno di questi messaggi: «Carissimo Ian, beh, di fatto, “no rain, no gain” (niente pioggia, niente guadagno) – ma tutto dipende dalla misura in cui Larkin antropomorfizza il suo subconscio… A titolo provvisorio esprimerei il sospetto che quel “trasformarsi in pioggia da qualche parte” non promette niente di buono». 
E dire che quest’uomo soffriva costantemente. Non potendo bere né mangiare, succhiava minuscole schegge di ghiaccio. Qualcun altro avrebbe cercato di ingannare se stesso con l’idea di un qualche piano divino (perché proprio io?), o il sogno di un aldilà . Per Christopher c’erano solo i libri. Nei tre giorni della mia ultima visita ho preso nota dei suoi temi di conversazione. Dopo avermi scippato il mio Ackroyd, mi ha parlato di un narratore slovacco; si è chiesto se i romanzi di Dreiser sul mondo della finanza potessero servire da guida nell’attuale crisi; ha commentato il cattolicesimo di Chesterton, i Sonnets from the Portuguese di Browning, che gli avevo portato alla mia visita precedente, e la Montagna Incantata di Thomas Mann, che aveva riletto in funzione di una riflessione sulle ambizioni imperiali tedesche nei confronti della Turchia. E siccome avevamo incominciato a parlare dei vecchi tempi a Manhattan, ha voluto celebrare e citare il Requiem tedesco di James Fenton: «Quanto è mai confortante/una o due volte all’anno/ritrovarsi insieme/ e scordare i tempi andati». 
Mentre stavo con lui, nella lontana Londra era in corso una celebrazione: alla Festival Hall, Stephen Fry esponeva le sue riflessioni sulla vita e sul tempo di Christopher Hitchens. Lo abbiamo aiutato a scendere dal letto e a sedersi in poltrona, davanti al mio portatile. Alexander si è scavato un percorso su Internet mediante tutta una serie di password speciali per collegarci all’evento, e grazie a un suo piccolo stereo siamo riusciti a ricevere l’audio molto prima del video. Ciò che abbiamo ascoltato era sorprendente e anche molto gratificante per Christopher: il suono di duemila voci, con tanti frammenti di dialoghi. E infine anche l’immagine della sala affollata. 
Sembravano molto giovani. Avrei scommesso che sull’Iraq sarebbero stati quasi tutti in totale disaccordo con Christopher. Ma erano lì. E in tutto il Paese erano accorsi per lui, a riempire le sale cinematografiche. Con un mezzo sorriso, Christopher ha alzato l’esile braccio in segno di saluto. Anche se i parenti stretti e gli amici sono presenti nella stanza dell’ospedale, si muore in solitudine. Il confinamento è totale. Ma Christopher ha potuto vedere coi suoi occhi che fuori da quella piccola stanza, la vita non lo aveva dimenticato. Per un momento – e con tutto il rispetto per Larkin – grazie a Internet, il mondo gli ha teso la mano. La mattina dopo, su richiesta di Christopher e con l’aiuto di Alexander, ho portato un tavolino sotto la finestra, installato all’altezza giusta il suo computer portatile coi vari fili e spinotti e sistemato i cuscini sulla poltrona. Certo, era bello conversare e sonnecchiare, ma gli restavano solo tre giorni di tempo per buttar giù tremila parole su Ian Ker e la sua biografia di Chesterton. Ogni volta che sentirò parlare di Christopher giornalista penserò a questo momento.
Considerate il mix: dolori continui, debolezza estrema, effetti della morfina, il tutto intrecciato alle complessità  della teologia della Riforma, al romanticismo di Chesterton, all’immagine di un’Inghilterra pervasa da quel tipo di cattolicesimo che mediava lo scontro col fascismo, e il suo gusto del paradosso, che Christopher voleva ridimensionare. A momenti la testa gli penzolava, gli si chiudevano gli occhi, ma poi con uno sforzo sovrumano si dava uno scossone per svegliarsi e scrivere qualche altra riga. La sua eccellente memoria gli era d’aiuto, poiché non aveva sottomano i libri che normalmente avrebbe consultato per un lavoro del genere. Quando uscirà  questa recensione, leggetela. La miracolosa fluidità  della sua prosa non lo abbandonava mai, il suo impegno era appassionato. È rimasto sempre fedele al suo mestiere. Uno scrittore consumato, un amico brillante. Come nella celebre frase di Walter Pater, arso «in quella dura fiamma, simile a una gemma». Fino alla fine.

*Traduzione di Elisabetta Horvat

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