«Esclusi, ma facciamo quelle auto»

by Editore | 15 Dicembre 2011 6:51

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POMIGLIANO D’ARCO
Un blocco di bandiere, un lungo cordone della polizia e almeno una ventina di blindati per tenere lontani dall’inaugurazione della nuova Panda, chi quella macchina dovrà  costruirla con le proprie mani. Una scena paradossale, per gli operai tagliati fuori dal grande evento mediatico di Marchionne, l’ad italocanadese arrivato nello stabilimento di Pomigliano già  alle 7 di mattina, da un’entrata secondaria per non farsi bloccare dai suoi stessi dipendenti. Riflettori puntati, sorrisi smaglianti, ma a loro non ha rivolto nemmeno una parola. La risposta sono ore di presidio, di canzoni, di ironia amara sulla conferenza stampa sentita in streaming dagli altoparlanti, con una precaria connessione internet. Fiom e Cobas, sulla deadline, Rsu e iscritti estromessi dalla fabbrica a cui è stato permesso solo un volantinaggio nel parcheggio, con i giornalisti a schizzare fuori dal Gianbattista Vico alla guida dei modelli nuovi di zecca. Così non può che montare la rabbia. Voci roche e incavolate negli interventi da un palco improvvisato. Un camioncino della Fiom, che due delegati sono andati a ritirare fino a Torino dallo Spi Cgil. 
«Lo diciamo pubblicamente da questo presidio – attacca Maurizio Mascoli, segretario regionale Fiom – tutti i dirigenti dello stabilimento saranno denunciati per pressioni psicologiche sui lavoratori. Il sindacato dei metalmeccanici ha resistito al fascismo figuriamoci se non può resistere a Marchionne». Mascoli si riferisce all’estromissione della Fiom dallo stabilimento sotto il Vesuvio, ma soprattutto al fatto che dei 500 operai richiamati alle linee nelle scorse settimane, nemmeno uno è iscritto all’organizzazione cigiellina. Anzi, secondo le denunce di diversi lavoratori, i quadri hanno consigliato di stracciare le tessere per avere qualche chance di ritornare in fabbrica. «Invece siamo stati proprio noi con le nostre battaglie a non far chiudere Pomigliano insieme con Termini Imerese», ricorda Antonio Di Costanzo, Rsu Fiom. «Questo è solo l’inizio del nuovo modello Marchionne», rispondono gli esclusi con le felpe rosse, a un palmo di naso dagli agenti in assetto antisommossa. 
A dargli manforte però sono arrivati in tanti, i ragazzi dei movimenti universitari, quelli di Uniti contro la crisi, i centri sociali, i disoccupati organizzati dei Banchi nuovi, l’Usb, Rifondazione e Sel, hanno formato un fitto spezzone che con cori e slogan ha animato una parte della lunga giornata contro la Fiat. L’azienda è accusata di aver introdotto, tramite un referendum-ricatto, un nuovo contratto in barba a tutte le regole, da martedì ampliato anche agli altri stabilimenti, calpestando i diritti dei dipendenti e promettendo un aumento salariale che in realtà  non è una concessione, ma il risultato dell’aumento del carico di lavoro, del taglio della pausa pranzo, di condizioni insopportabili. «Tra l’altro se è vero che le misure devono servire all’aumento della produzione – spiega con un calcolo matematico Antonio Di Luca, operaio addetto alla qualità  – questo stabilimento già  con l’organizzazione del lavoro in Alfa riusciva a sfornare anche 1200 vetture. La verità  è che a Marchionne questo non interessa affatto, anche perché se il target è produrre 230 mila Panda, non riuscirà  mai a impiegare 5300 operai, al massimo la metà ». 
L’indice di Di Luca è rivolto lontano a quei palazzoni dove l’amministratore delegato e John Elkann fanno gli onori di casa per la kermesse. Su un lato il maximanifesto con lo slogan della fabbrica «Siamo quello che facciamo» con tante tute bianche a comporre la sagoma della nuova vettura: «Ci prendono anche in giro – urla un dipendente della De Vizia, la ditta interna delle pulizie – noi non siamo pezzi di auto. Invece i dirigenti ora ci trattano come cose, perché hanno perfino il potere di decidere chi deve lavorare e chi no». Anche Vittorio Granillo, leader dello Slai Cobas, ne canta di tutti colori all’azienda, e da storico antagonista della Fiom addirittura propone un alleanza: «È chiaro che se ci bombardano dobbiamo stare tutti insieme». Una frase che per chi conosce Granillo è termometro della crisi in atto nella contrattazione sindacale. Eppure non c’è aria di rassegnazione, ma di rivalsa e dopo 12 ore di blocco gli operai si salutano con una promessa: «Da qui inizia la nostra battaglia per nuovi investimenti anche nell’indotto»

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