Le verità taciute dell’arte
Uno prende un grappolo di domande fondamentali – la qualità dell’arte: che cosa sia, dove stia, e se ci sia, proprio, alla fine dei conti – e senza avvedersene è già un condannato. Perché: o liquida la questione, ammettendo che un’opera d’arte viva della propria forma, cioè di quella specificità , di quella prossimità che può renderla con-forme, appunto, a ciò che da essa ci si aspetta; oppure, guai a lui, riconosce nell’opera il salto, l’ammanco, il numero segreto, il conto che non torna, e si ritrova lui stesso – se ci si passa l’espressione – dall’altra parte del punto interrogativo: discusso, confutato punto dopo punto, giansenista, eretico.
L’arte è lo sbaglio, il seme dell’errore, il fuori-tempo raccattato per via dall’essere umano, senza che nessun’altra forma vivente se ne sia mai accorta. Tutto ciò raccontano Le piccole provinciali di M. de P. di Fabio Mauri (1926-2009), che la casa editrice genovese Il Canneto ha di recente mandato in libreria (pp. 108, euro 12). Cominciate a metà degli anni Cinquanta sotto forma di riflessione scientifica, sono poi diventate un piccolo romanzo epistolare che rifà il verso alle Lettere provinciali di Pascal: il cerimonioso, l’inattuale, già maà®tre-à -penser, e forse à -survivre, di Leopardi, e poi di Ungaretti.
L’opera d’arte non dice nulla di sé, ma tutto di chi la osserva. Per molti anni Mauri ci ha giocato, muovendo e studiando le mosse, guardando l’avversaria e facendo in modo di non farsi decifrare. E queste Piccole provinciali – a mo’ di racconto epistolare, ma anche di esercizio platonico – parlano dello spazio che può ritagliarsi, tra le infinite ragioni di esistere, la necessità dell’arte. Narrano cioè la schermaglia, le ferite, gli intoppi di chi la fa e di chi la subisce, l’arte, come un insieme straordinariamente complesso di differenti qualità . Uno legge e si ritrova alla metà del Seicento, davanti a uno scrittoio, nelle stazioni di posta e nei parquets di biblioteca.
A un certo punto, poco prima della metà del libro, tutto comincia a muoversi convulsamente: i punti di vista rimbalzano e si assottigliano, e un meccanismo di narrazione si impadronisce della trama epistolare, finché Monsieur de P. – di fronte a un emiciclo di legno, pieno di tarme che rodono e di gesuiti che ringhiano, pronti a scagliarsi contro di lui – reagisce a colpi di dubbio e di anacronismo, guardando alle qualità dell’arte come si guarda a quelle della verità .
E proprio la verità , nel suo pensiero, non è altro che l’errore: errore di calcolo, imprevisto, risultato non postulabile. Verità e arte stanno dove non dovrebbero: fanno il salto, al contrario della storia, anche se è paradossalmente la storia – anzi la memoria, il termine più caro a Mauri – a ricomporle. Chi le cerca deve caricarsi mano a mano di un bagaglio di elementi sempre più incoerenti tra loro: gli serve il sapere di tutto un tempo ancora di là da venire.
Come aveva scritto Mauri nel 1988, citando Primo Conti, la memoria ricorda anche ciò che non sa. Di lì le sue installazioni, le forme visuali: proiezioni luminose sul proprio volto (ce n’è una, celebre, in cui si legge entartet, degenerato) o sul corpo altrui (Intellettuale, ad esempio, che proiettava sul torace di Pier Paolo Pasolini Il vangelo secondo Matteo). Di lì, insomma, il riproiettarsi della memoria per mezzo della luce, dove non potevano più essere distinguibili il processo del dare forma e quello del venire formati: la sovrapposizione, cioè, tra l’immagine dell’arte e quella del dover vivere, tra l’estetica e l’etica. Le piccole provinciali trascrivono in parole quella luce, così amorevolmente veicolata e proiettata. Non c’è un corpo a raccoglierla, ma una mente: anzi, un teatro allegorico di conflitto, di lotta per la sopravvivenza, di schermaglia, nel quale infine Monsieur de P. crolla, sotto i colpi di chi ha paura dell’arte come della verità .
Con Monsieur de P. finisce Port Royal, il giardino della felicità mentale. Appena una pagina dopo, forse, le sue ossessioni – l’arte e la verità – sarebbero diventate numeri, e una formula: per ora, invece, le si può ascoltare nel suono delle tarme, che rodono ingorde gli scranni dei gesuiti. Quelle stanno lì, nelle nervature della storia, e non le ferma nessuno.
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