Le responsabilità  collettive nelle oscillazioni dello «spread»

by Editore | 28 Dicembre 2011 9:20

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La risposta più facile è perché i mercati non hanno creduto che, fatto fuori il Cavaliere, le cose sarebbero cambiate. Ma la risposta postula una seconda domanda, più inquietante: perché non l’abbiano bevuta. 
Che non se la pongano partiti e uomini politici — finiti dietro la lavagna del professor Monti — è nell’ordine delle «furbizie della politica»: perché mette in discussione la loro stessa credibilità . Che non se la ponga il governo tecnico — dopo aver massacrato i contribuenti di tasse — è nell’ordine delle «astuzie tecnocratiche»: perché rivela che, fra il governo dei «saggi» e quelli politici che lo hanno preceduto, non c’è, poi, tanta differenza: stesso ricorso alle tasse come «pezza a colori» sui buchi dello Stato; stessa impotenza, mal nascosta da una certa alterigia accademica. Che non se la pongano gli italiani — infrattati nello «Stato paternalista» che chiamano sociale — è nell’ordine delle «ragioni storiche»: perché non credono nella «società  aperta», alla dimensione morale delle libertà , alla centralità  dell’Individuo, alla fertilità  della concorrenza e persino del conflitto, al pluralismo sociale e dei valori, alla separazione dei poteri. 
Non si sono posti la domanda neppure i media. Non lo hanno fatto perché, dopo aver elevato Monti a «Uomo della Provvidenza», hanno scoperto che non lo può essere, senza snaturare la democrazia, e per scarsa attitudine personale; che la manovra fiscale servirà  a poco, se non sarà  seguita da una seconda, e radicale, trasformazione che il Paese rifiuta e che Monti e i suoi non paiono intenzionati a fare. Ma se nessuno, in Italia, sa, o vuole, chiedersi che cosa impedisca la riduzione dello spread con i titoli tedeschi, perché i mercati dovrebbero credere che vi si voglia porre rimedio? Perché dovrebbero credere alla riforma — cui neppure la generalità  degli italiani mostra di credere — di uno Stato para-autoritario e di una società  civile corporativa? 
È difficile credere a un Paese che:
1) non garantisce neppure la costanza della certezza del diritto; ma lo muta, secondo le convenienze del governo in carica, grazie a una legislazione ondivaga che riflette le mutevoli maggioranze parlamentari invece di confermare la continuità  dello Stato (di diritto);
2) cerca sistematicamente di estorcere quattrini a chiunque gli capiti a tiro — ultimo esempio, la richiesta di pagamento del bollo-auto del 2008, da parte della regione Lombardia, anche a chi l’ha pagato — fingendo di ignorare le stesse informazioni in suo possesso per chiamarlo a dimostrare la propria probità  amministrativa, nella speranza che ne abbia perso le prove e di costringerlo a pagare due volte la stessa tassa (estorsione è la parola giusta); 
3) adotta, nei confronti del contribuente, il diktat solve et repete (paga subito e poi si vedrà  se avevi ragione) — dopo averlo cancellato con una sentenza della Corte costituzionale e ripristinato con una legge ordinaria (a proposito di certezza del diritto); si fa giudice in causa propria, con l’esecutorietà  della sanzione amministrativa (un obbrobrio giuridico); deve ai propri cittadini oltre sessanta miliardi incassati fraudolentemente; 
4) ignora la separazione dei poteri, legittimando persino in anticipo, grazie ad automatismi legislativi compiacenti, le illegalità  che l’Amministrazione e il giudiziario commetteranno; 
5) ripara giudizialmente (sul piano civile), con anni di ritardo — oltre che le illegalità  nei rapporti interpersonali — le irregolarità  amministrative in cui è incorso e quelle (sul piano penale) prodotte da un sistema giudiziario in preda a un delirio palingenetico;
6) sta progressivamente accentuando il carattere «totalitaristico-amministrativo» del proprio Ordinamento (una via di mezzo fra l’eredità  corporativa fascista e il costruttivismo collettivista dei Paesi di socialismo reale). 
Che la credibilità  personale di Berlusconi fosse piombata a zero, in parte dopo le sue disinvolte serate, peraltro enfatizzate oltre misura dal circo mediatico-giudiziario, e soprattutto per la palese incapacità  di fare le riforme promesse, è innegabile; così come è innegabile la credibilità  personale di Mario Monti. Ma ciò che ha scatenato la speculazione internazionale sul nostro debito sovrano sono, innanzi tutto, le sue dimensioni (1.900 miliardi di euro) e, in secondo luogo, la scarsa credibilità  del Paese di uscirne cambiando registro. Allo scetticismo dei mercati abbiamo infatti risposto riesumando l’auto-consolatoria, e provvidenzialistica, retorica nazionale e con un vacuo ottimismo della volontà  (europeista), non suffragato da un sano pessimismo della ragione (nazionale), che ha lasciato il tempo, e i mercati, che aveva trovato.

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