Le regole monastiche secondo agamben

by Editore | 31 Dicembre 2011 7:13

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Si può scegliere la povertà  senza subirla? Questione delicata, soprattutto per noi moderni, abituati a vedere nella ricchezza uno dei prepotenti obiettivi della nostra esistenza. Eppure la storia convoca esempi in cui la povertà  è un gesto che nasce da una decisione piuttosto che da un’imposizione che ci condanna a una rassegnata e indesiderata condizione di indigenza. È facile nascere o diventare poveri, ma esserlo, con tutte le implicazioni profonde di una tale condizione, può aprire scenari giuridici, etici e politici per noi impensabili.
Il nuovo libro di Giorgio Agamben – Altissima povertà  (Neri Pozza) – sceglie la figura del monaco per analizzare il complicato rapporto tra povertà  e regola. O meglio ancora, come scrive l’autore: «Il dispositivo attraverso il quale i monaci provarono a realizzare il loro ideale di una forma di vita comune». Che cosa hanno di interessante quelle figure religiose che tra il quarto e il quinto secolo si produssero in una letteratura al cui centro erano state elaborate le regole monastiche? Fa notare Agamben che proprio quei testi, tanto disparati e monotoni da risultare disagevoli al lettore moderno, possono chiarire, meglio di tanti libri di etica o di diritto, la relazione tra l’azione umana e la norma, tra la vita e la regola. Ma occorre aver chiaro che l’ideale monastico nasce prima come fuga solitaria e individuale dal mondo (l’eremo) e solo in seguito si trasformerà  in un ideale di vita comunitaria (il cenobio). Cioè diventerà  un sistema capace di dar vita a una comunità  di credenti, dove tutto è in comune. Abitare insieme non è solo un fatto materiale ma una condizione spirituale, grazie alla quale il monaco si eleva verso il cielo. Nella Scala claustralis di Bernardo sono quattro i gradini dell’ innalzamento: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. Un tale movimento presuppone una nuova scansione temporale «il cui rigore», osserva Agamben, «non soltanto non aveva precedenti nel mondo classico, ma, nella sua intransigente assolutezza, non è stato forse uguagliato in alcuna istituzione della modernità , nemmeno dalla fabbrica taylorista». La vita del monaco è interamente regolata da una divisione del tempo che ritroveremo dispiegata nei dispositivi della modernità . Ma cosa ci insegna quell’esperienza sulla quale scese anche la condanna della Chiesa?
Uno dei punti di snodo nella riflessione di Agamben è il francescanesimo, per il quale il rapporto tra regola e vita si fa più acuto e più bruciante il conflitto con la curia. È Francesco a porre al centro del modello di vita dei frati minori l’altissima paupertas. Dove per povertà  si deve intendere non solo, o non tanto, una pratica ascetica di perfezione in cambio della salvezza, ma soprattutto una diversa concezione dell’uso dei beni e del loro possesso. Per i francescani e per il suo fondatore è possibile una vita fuori dal diritto (abdicatio iuris), ossia fuori dalla proprietà . Di qui, ad esempio, l’importanza che gli animali rivestono in Francesco, le loro vite autonome dal diritto sono un modello per i fratelli la cui condotta implica una rinuncia alla proprietà , ma non all’uso, dei beni. Molto prima che nascessero i movimenti che rivendicheranno l’abolizione della proprietà , il francescanesimo adotta una povertà  di tipo nuovo che si richiama al vivere secondo la forma del santo Vangelo. Quella che potrebbe essere una posizione teoricamente feconda finirà , nei secoli successivi, col diventare marginale. La parte conclusiva del libro converge sulla sconfitta delle posizioni francescane. Il limite dei teorici francescani è, per Agamben, riconducibile alla loro incapacità  di approfondire la teoria dell’uso e di connetterla con l’idea di forma di vita. Sono questi i due grandi dispositivi che l’Occidente, dopo il fallimento francescano, ha lasciato sospesi, irrisolti, impensati.
Le teorie della povertà  sono state soppiantate da quelle del consumo. Il valore d’uso della merce, avrebbe detto Marx, dal valore di scambio. Ma per quanto tempo ancora le nuove e illusorie conquiste sapranno e potranno soddisfare i nostri desideri? Ecco il punto, non dichiarato, che mi sembra far da sfondo al bel libro di Agamben.

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