Le fabbriche della triste legge

by Sergio Segio | 10 Dicembre 2011 9:06

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I movimenti sociali hanno sottoposto a critica da lungo tempo ogni fiducia ingenua nel diritto come strumento di limite al potere e di emancipazione. La critica femminista ha messo in luce la natura sempre sessuata della norma giuridica, la critical race theory ne ha studiato il razzismo implicito, i critical legal studies continuano a scavare nel lato oscuro del discorso giuridico. Lavori preziosi in questo momento politico, in cui le retoriche della legalità  rischiano di penetrare anche all’interno dei settori più critici della società . Altrettanto chiaramente, però, si avverte l’insufficienza del lavoro semplicemente «critico»: i movimenti dei beni comuni, per esempio, ricercano anche la possibilità  di un uso creativo e sperimentale del diritto. È molto interessante, in questo quadro, ricordare che proprio Gilles Deleuze, il pensatore sempre associato a una strenua e creativa opposizione a ogni «legalità », filosofica, pscicanalitica o giuridica, in nome dell’irriducibilie singolarità  della vita, si sentisse una sorta di «giurista mancato». Lo confessa a Claire Parnet, nell’Abecedario (i due dvd sono editi in Italia da DeriveApprodi), e proprio nella «politicissima» voce Gauche: «se non avessi fatto filosofia, avrei fatto diritto». Giunge quindi a proposito l’edizione italiana di un importante lavoro, uscito in Francia un paio d’anni fa, di Laurent de Sutter (Deleuze e la pratica del diritto, ombre corte, pp. 103, euro 12, con una postfazione di Sandro Chignola e la traduzione di Lorenzo Rustighi). De Sutter prosegue con questo testo una serie di indagini, che hanno in Bruno Latour e in Isabelle Stengers i principali riferimenti, alla scoperta della «pratica» del diritto: le operazioni che avvengono nelle «fabbriche» giuridiche, non sono applicazioni o interpretazioni di norme, ma vanno indagate come una concatenazione di rapporti, una «lenta ruminazione» di invenzioni che non hanno alcuna «illuminazione» trascendente, nessuna luce del Bene o del Meglio che attribuisca loro un qualche senso dall’esterno. L’arte della superficie È proprio questa diffidenza della giurisprudenza per ogni fondazione ad attirare l’interesse di Deleuze per il diritto. Un interesse per nulla marginale, mosso dalla stessa domanda dell’ultimo suo libro con Felix Guattari, Che cos’è la filosofia. L’irruzione del diritto nel campo della filosofia colloca infatti quest’ultima davanti a un bivio cruciale: la scelta tra un pensiero critico della Legge e una clinica pragmatica del Giudizio. Il saggio di de Sutter segue il pensiero deleuziano esattamente lungo questo percorso. Il primo movimento è quello della critica della Legge. Sia l’immagine classica della legge, quella platonica, che la vede come rappresentazione del Bene, sia la nuova pretesa, moderna e kantiana, di tagliar corto con ogni fondamento sostanziale e di reggersi solo sulla pura forma e sulla procedura, hanno qualcosa di irriducibilmente comico. Già  i discepoli di Socrate ridono, davanti a una legge che, in nome del Bene, chiede a Socrate di accettare la condanna, e che, promettendo sempre il Meglio per gli uomini, finisce ogni volta per realizzare il peggio del peggio. Ma anche l’immagine moderna della legge, la sua infondatezza, si rivela comica. Se Sade, nel proclamare il Male come autentica fondazione, si muove ancora dentro un tono ironico, che rivela la nostalgia per quel fondamento che vorrebbe distruggere, Sacher-Masoch mostrerà  come basti applicarla con dettagliata meticolosità , perché la legge si metta a girare su se stessa ed esibisca il proprio clamoroso effetto umoristico: ne viene fuori sempre esattamente tutto l’opposto di quello che ci si attendeva. Nell’umorismo di Sacher-Masoch «non c’è alcun tentativo di fare della legge qualcosa di diverso da ciò che essa è». La critica della legge deleuziana è tutta iscritta in quell’«arte delle superfici» che è l’umorismo, non la anima nessuna nostalgia del profondo, non fa cenno a nessuna inattingibile mancanza. E soprattutto – de Sutter lo sottolinea abilmente, confrontando il Kafka di Deleuze con l’interpretazione che ne offrì a suo tempo Massimo Cacciari – non c’è nessun tono tragico: la mancanza di fondamento di una legge che pretenderebbe di autofondarsi va esibita con una risata, e poi bisogna passar oltre: nonsense ben più che tragedia. L’incanto decisionistico Questo antitragicismo di Deleuze ha evidenti significati politici: mentre una critica «tragica» dell’infondatezza della legge moderna rischia di paralizzarsi a contemplare nichilisticamente il vuoto su cui ogni decisione si fonda, la critica «umoristica» permette di sfuggire ad ogni incanto «decisionistico», e soprattutto, apre la possibilità  di non considerare invalicabile l’orizzonte della critica stessa. Il movimento negativo della critica del pensiero della legge diventa condizione di una positiva clinica della pratica del diritto. «Dal momento che, come risulta dalla sua critica – scrive de Sutter – la legge non è in grado di reggersi sulle sue gambe e crolla continuamente su se stessa, è logico pensare che qualche cosa del diritto debba persistere al fondo dell’ignominia contemporanea». La giurisprudenza ha la capacità  di disgiungere il diritto dalla legge, e di procedere «per singolarità , prolungamenti di singolarità ». Realizza un orizzonte pragmatico, che funziona per «connessioni rivoluzionarie» contro le «coniugazioni dell’assiomatica». Coincidenza di giurisprudenza e filosofia, ragionamento per precedenti ed empirismo trascendentale. È questo l’esito del percorso di de Sutter: trovare la filosofia attraverso la pratica del diritto, e liberare entrambe dalle prigioni del pensiero della legge e del giudizio. Eccedenti alla legge Questa rivendicazione di filosoficità  della pratica del diritto potrebbe risultare al lettore piuttosto innocua sul piano politico, così come la liberazione di una immanenza tutta filosofica può sicuramente risultare come una salutare boccata d’aria per il pensiero, ma in fondo marginale rispetto alla concretezza delle lotte. Ma le pagine dedicate alle analisi deleuziane sulla società  del controllo pongono questioni ulteriori, che spostano questi temi su terreni decisamente più ruvidi. Vi richiama l’attenzione la postfazione di Sandro Chignola: dietro la capacità  della giurisprudenza di inventare una clinica delle connessioni, ben oltre la semplice critica della legge, c’è in realtà  la concretissima crisi dei dispositivi di disciplina e di controllo. È proprio la mobilità  della società  postdisciplinare a mettere fuori gioco qualsiasi pensiero della legge, e a spingere fuori tempo massimo qualsiasi «semplice» esercizio critico. Ma, se questo è vero, dietro al pragmatismo della giurisprudenza deleuziana, intravediamo in realtà  il movimento delle eccedenze soggettive, delle pratiche che la società  del controllo prova a contenere, ma rispetto alle quali si svela sempre più parassitaria. È da queste eccedenze che una giurisprudenza libera dalla legge e dalla sovranità  è attraversata: ma allora la questione cruciale, dietro alla capacità  di connettere casi e topoi, sarà  quella di immaginare una giurisprudenza che sappia aiutare a connettere piuttosto i processi di soggettivazione, a costruire dispositivi di liberazione del lavoro vivo dalle griglie del controllo. Deleuze era molto interessato a immaginare istituzioni che fossero espressione della capacità  inventiva e immaginativa della vita, istituzioni oltre la legge, e oltre quel triste pensiero, che ha condizionato tutta la modernità , da Hobbes in poi, per cui le istituzioni sarebbero solo un necessario rimedio per la miseria costitutiva della situazione umana (i suoi primi lavori, dall’introduzione all’antologia su Istinti e istituzioni al libro su Hume Emprirismo e soggettività , sono un laboratorio ancora poco esplorato per un istituzionalismo alternativo a quello sviluppatosi all’interno del pensiero giuridico tradizionale). E oggi, nella crisi, proprio quando il pensiero delle istituzioni «legali» si rivela sempre più esplicitamente fondato su un triste giudizio sulla vita, ridotta a debito e colpa, la forza della cooperazione sociale, la sua possibilità  di liberarsi dallo sfruttamento perpetuo al quale le politiche dell’austerità  e del rigore vorrebbero condannarla, si misureranno proprio sulla capacità  di creare istituzioni irriducibili a questa «legalità » dell’eterna riproduzione della dipendenza. Immaginazione costituente Le soggettività  che lottano per sottrarsi ai dispositivi del comando finanziario sanno bene che dalla Legge non possono più aspettarsi nulla; ma neanche dalla tradizionale critica del diritto, spesso bloccata al momento decostruttivo, timida davanti a sfide costituenti. Al contrario, oggi la ricerca di una pratica altra del diritto può attingere, in produttiva risonanza con i processi reali, a laboratori che mettono al centro la ricchezza e la gioia, e non la miseria, del vivere insieme, e lì radicare la sua immaginazione istituente. Le linee di ricerca di economisti e filosofi che indagano sulla società  del debito (solo per portare esempi, le riflessioni di Christian Marazzi e Maurizio Lazzarato), i giuristi che leggono i beni comuni (al plurale) come spazio oltre il pubblico e privato (il percorso che va tracciando Ugo Mattei), la riflessione sul comune (al singolare) come ricchezza e potenza della cooperazione sociale (sulla quale insistono Michael Hardt e Antonio Negri), spingono tutte, finalmente, oltre il pensiero moderno del diritto come dispositivo di ordine, che salva e redime una società  povera e misera, per cominciare a pensare le modalità  di organizzazione autonoma di quella ricchezza sociale e cooperativa. Un possibile buon uso «clinico» di una giurisprudenza inventiva e creatrice, «oltre la legge», può essere uno degli strumenti per la creazione di quelle connessioni costituenti tra soggettività  eccedenti, cui guardano tutti questi stili di pensiero, oltre il comico esaurirsi della legge sovrana e il reciproco insterilirsi del semplice discorso critico. ******************************* SCAFFALI La critica alla società  del controllo Laurent de Sutter è un ricercatore che ha lungo collaborato con Bruno Latour e Isabelle Stengers attorno allo statuto della filosofia del diritto e le pratiche scientifiche. Negli ultimi anni, tuttavia, il suo percorso teorico ha scelto anche di seguire altri sentieri. È del 2007, infatti, il saggio «Pornostars. Fragments d’une métaphysique du X» (La Musardine), all’interno del quale la dimensione della pornografia viene contestualizzata criticamente nelle pratiche di controllo del corpo, giungendo però alla provocatoria tesi che la pornografia può essere cambiata di segno per diventare una pratica della liberazione. In altri termini, mentre la pornografia è sì dispositivo di controllo della sessualità , può manifestarsi anche come critica della sessualità  maschile dominante. Tesi che viene ripresa e approfondita anche nel saggio «Contre l’érotisme» ( La Musardine, 2011). Altrettanto provocatorio è il saggio «De l’indifférence à  la politique» (Puf, 2008), dove Laurent De Dutter analizza sì la disaffezione alla politica, ma rintracciando in alcune pratiche sociali soprattutto la lontananza dalla pratiche politiche istituzionali incardinata in una critica della società  del controllo. Il libro invece su «Deleuze. La pratica del diritto» nasce invece sulla rinnovata attenzione verso gli scritti Deleuze attorno al rapporto tra norma e legge, alla luce anche di alcune esperienze di critica del diritto e di sviluppo di norme alternative a quelle dominanti che tuttavia definiscono le regole attinenti a specifiche forme di vita.

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