L’ultimo saluto a Giorgio Bocca, il partigiano che raccontò l’Italia

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Il “magone” dei piemontesi che vivono fuori è una specie di peso dell’anima ogni volta che si entra a Torino, o spuntano le colline delle Langhe, o torna davanti agli occhi la cerchia delle montagne, in qualunque stagione. Giorgio Bocca sorvegliava quel magone permanente per la sua terra, che aveva perso e voleva sempre riconquistare, e portava dentro di sé quei mondi cui non aveva mai rinunciato, perché erano le radici e l’identità , e un “posto” bisogna pure averlo. Così è per tanti. Ma Giorgio era riuscito a trasformare tutto questo – le montagne della battaglia di gioventù, la tipografia notturna di corso Valdocco a Torino con Calvino, Pavese e Raf Vallone, Nuto Revelli che racconta nel negozio a Cuneo, i cortili delle Langhe d’estate, con Bobbio e gli altri – in un paesaggio morale che ha fatto da sfondo costante al suo giornalismo d’eccezione, dandogli forza e tenuta.
Diceva che nei primi tempi, dopo aver messo il foglio dentro la macchina per scrivere, traduceva mentalmente dal piemontese. Sarà  per questo che andava giù dritto, e le parole sembravano cose, e suonano autentiche ancora oggi: non capita a tutti. Bisogna leggerle le vecchie cronache di Giorgio cronista, quelle su Gazzetta Sera, per esempio nel primi Cinquanta, magari quando scopre il delitto nel retrobottega di Emilio Olmo, il calzolaio assassino di Alessandria. Una ruvidezza robusta, che è già  schiettezza, lo sguardo che si stupisce fermandosi su un dettaglio nel negozio buio con le serrande a metà , la città  che si muove intorno, come un coro inconsapevole, ma presente. O la voglia di cercare il nuovo nelle inchieste, i fiori che parlano a Sanremo, le porte arrugginite che sbattono a vuoto nelle risaie senza più mondine a Vercelli, una curiosità  finale sussurrata nelle ultime righe e in mezzo a piazza Galimberti a Cuneo: ma perché qui il bollito è diverso, è più buono, cosa lo rende speciale? E infine, e sempre, il magone mentre arrivava in macchina a Torino da Milano, passava i quartieri di periferia come barriere coralline e tornava a fare i conti eterni con quella città  e con quella gente, sua ma così difficile da acchiappare fino in fondo.
Giorgio aveva dovuto in qualche modo saltare Torino, gli anni difficili della Gazzetta del Popolo per conquistare l’Italia da Milano. La città  gli si era aperta, si era rivelata, si era fatta prendere e scalare, conoscere. L’Europeo e la scuola dei settimanali, l’inchiesta che lo portava a viaggiare e a conoscere l’Italia per poi reinventarla sulla pagina accanto alle grandi fotografie di un mondo che precedeva la televisione, la Rizzoli che gli ronzava intorno la sera mentre lui faceva l’amore con una segretaria in archivio, poi il Giorno con quel direttore-partigiano, Italo Pietra, che prima di farlo partire per un’inchiesta aveva sempre la stessa raccomandazione, fantastica: “Mi raccomando, sparagli dentro”.
Sarà  per questo che Tullio Pericoli sulla copertina del vecchio Vita di giornalista scritto con Tobagi disegna Giorgio in piedi, con la fronte squadrata tipica delle valli occitane e la penna stilografica portata in spalla, come un fucile. Il partigiano infatti non era mai andato in pensione, incalzava il giornalista e gli dava l’anima, radunava ricordi, valori, paesaggi e compagni: quella scelta di gioventù restava come scelta di vita, come fondamentale, e diventava il filtro e la lente con cui leggere le persone e gli avvenimenti, come metro personale di condotta ma anche di giudizio. Le maestre-staffette in Val Grana, i fienili d’alta montagna alla Chialvetta, i muli su per il vallone di Elva erano ricordi. Ma la pedagogia politica di Giustizia e Libertà  era la vera scuola, e quella non finiva mai.
Troppo basico, come diranno poi quelli che hanno cambiato idea e non sopportavano quel substrato culturale di “Resistenza permanente” nel lavoro di Bocca? Una logica troppo primitiva e binaria, che spaccava il mondo in due selezionando con certezza e per sempre amici e nemici? Ma nell’Italia molle e opportunista in cui abbiamo vissuto, e nei suoi giornali, tutto questo diventava una forza e dava certezza di riferimento, sicurezza nello sguardo. In più disegnava un’Italia di minoranza come il vecchio azionismo, valori forti e presenza debole, una vita di testimonianza e di impegno che poteva ben essere scambiata per ostinazione e testardaggine, visto che stava fuori dal circuito ufficiale del potere. 
Perché tutto questo consentiva a Bocca di vivere nel luogo che più gli piaceva, in quanto più adatto a lui: fuori, dove c’è l’impegno civile più che l’impegno politico diretto, dove contano gli stili di vita e ciò che si manifesta di sé attraverso il lavoro, dove il potere si incontra per conoscerlo e per giudicarlo, raccontandolo ma senza mai farne parte. Giorgio conosceva bene il craxismo come il comunismo togliattiano, che aveva studiato e avversato, il berlusconismo nascente come sedicente miracolo milanese, il mondo della grande impresa, lo Stato nella forma e nella solitudine quasi eroica dei grandi funzionari che facevano della guerra al crimine un faticoso mestiere.
Era una strada solitaria e ruvida, dove fatalmente Bocca incontrò Repubblica, il suo giornale. In comune, un modo di essere di sinistra, ma senza appartenenze. Soprattutto, una certa idea dell’Italia. Ancor di più, antenati simili, punti di riferimento uguali, culture e storie condivise, da Bobbio a Gobetti, all’Espresso, all’innovazione dei primi anni del Giorno. Viaggiando l’Italia, il giornalista divenne scrittore. Cercando ogni volta di scoprire, di capire, di restituire scrivendo ciò che aveva incontrato e compreso, il cronista diventò uomo di idee, un editorialista, come si dice. “Non sapevo di sapere queste cose – confessò una sera rispondendo ai complimenti del giornale per un commento – . Certe volte mi capita di pensare che le cose che io firmo sono già  dentro la macchina per scrivere, basta premere e tasti e vengono fuori”.
Era la conferma del talento, e della scuola quotidiana a cui quel talento si sottoponeva. Le idee nascevano proprio così, dall’urto tra i grandi fatti di cronaca e un sistema di valori, di esperienze e di saperi concreti (una cultura), e il risultato era qualcosa di nuovo che ogni volta spostava in avanti la conoscenza e aggiornava la mappa di quei sentimenti e risentimenti pubblici dei quali si parla ogni giorno con i lettori, dando forma – per i grandi autori – ad un pubblico costituito, come quello che Giorgio aveva.
Aggiungiamo qualcosa di ineliminabile. La testa dura di Bocca, quel carattere che corrispondeva ad un modo di essere, per nulla compiacente, capace di mettersi contro il senso comune dominante di un’Italia inclusiva attraverso il compromesso, accomodante. Uno sguardo mai complice, schietto e ruvido, abituato ad andare al sodo, come se avesse sempre da fare. Anche se gli piaceva raccontare, curiosare con le domande su aspetti minimi, rispondersi da solo con uno schema che aveva costruito per conto suo nelle giornate della vecchiaia dietro la grande scrivania, in mezzo agli scaffali disposti a schiera dei suoi libri, che puntavano tutti verso di lui. “Tutto il mondo che vedo è ormai questo”, spiegò in una delle ultime cene sul terrazzo, indicandomi i tetti, le finestre, le ringhiere, e cercando conferma nello sguardo di Silvia. Pensai alle antenne del giornalismo, o qualcosa di simile, la sapienza che consentiva di prendere quel poco di mondo visibile e di metterlo in relazione con l’invisibile, costruendo una scala di riferimenti viva, forte, capace di svelare ciò che restava celato, e di farcelo capire.
La scrittura spiega il resto. Asciutta, modernissima, incapace di invecchiare, mai leziosa, nemica della complessità  e della metafora, ma anche del banale, del riduttivismo. L’animava la coscienza dello sguardo provinciale nel senso più alto del termine, la consapevolezza che c’è sempre qualcosa da scoprire più in là , un orizzonte da conquistare che può stupirci: per poi raccontare le storie con cura conservando la loro ricchezza e l’unicità , perché in provincia passano pochi fatti, bisogna saperli rendere simbolici per farli durare a lungo, d’inverno.
L’ultima volta mi ha chiesto se ero stato a Dronero, al Caffè Teatro, se ero salito in Val Maira dalle nostre montagne. Diceva che lo “tiravano per la giacca”, le cercava nella mente come quando da partigiano era sceso la prima volta nelle Langhe e fuori dalle montagna si sentiva “come un pesce fuor d’acqua”, stupito che si potesse vivere e far la guerra altrove, ad esempio in quella terra piana di canne, viti e pane bianco. In realtà , per lui come per Bobbio la torinesità  era solo una “condizione condizionante”, un’altra testarda fedeltà  ad un modo d’essere. Il resto, puro ricordo che in vecchiaia diventa mitico e fa piacere, come la scoperta da giovane della grande città , la partenza in treno al mattino presto, il Po, i portici, poi allo Standa “a vedere le commesse”, nei casini di via Conte Verde e infine al Lagrange per il caffè concerto, “e per mangiare dieci tramezzini e pagarne due”.
Ciao Giorgio, sarà  bello e facile ricordarci di te attraverso il lavoro e il tuo giornale, che è fatto di persone singole che si sono scelte attraverso una storia comune: cercando come te quel che bisogna sapere, ciò che merita ricordare. Quel che resta da capire.


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