Laboratorio Torino

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Ora, che il mostro si sia materializzato, in questo dicembre del 2011, a Torino dovrebbe farci riflettere. Qui, nella ex “capitale operaia”. Nella città  delle lotte del lavoro, dove è nata la nostra democrazia industriale. Né serve ripetere la stanca litania che Torino è un esempio di “integrazione e di accoglienza”. Che la maggioranza la pensa diversamente dalle poche decine di invasati che a colpi di fiaccola e di accendino ha tentato una strage. Non è così.
Se una ragazzina spaventata e (per questo) bugiarda ha evocato i “due zingari” per accreditare una violenza mai avvenuta, è perché ha pensato che quell’immagine rendesse credibile – in famiglia e nel quartiere – un racconto altrimenti improbabile. Se centinaia di persone sono scese in piazza in una fredda serata d’inverno per manifestare, non è purtroppo perché si trattava di una violenza sessuale (quante sono passate ignorate in questi anni!), ma perché i suoi presunti (e falsi) autori erano di un’etnia odiata a priori. Se le decine di incendiari hanno potuto agire sotto lo sguardo compiacente degli altri abitanti del quartiere, è perché mettevano in scena un comportamento condiviso.
La verità  è che la “città  dell’accoglienza” è oggi priva di anticorpi contro i nuovi mostri che emergono dalle sue viscere provate dalla crisi. Politica e informazione ne sono responsabili. Da anni ogni discussione in Consiglio comunale sui “campi nomadi” si apre e si chiude sempre e solo su un unico tema, gli sgomberi.
 E il quotidiano cittadino La Stampa ha dato notizia del fatto, poco prima che la sedicenne confessasse, sotto l’indecente titolo a quattro colonne: Mette in fuga i due rom che violentano la sorella.
Perché i giovani balordi delle Vallette dovrebbero essere migliori dei loro amministratori e giornalisti? Perché gli abitanti sbrindellati, spaesati e logorati dai debiti e dalla disoccupazione, di questo che era, fino a tre decenni fa, il quartiere dormitorio dov’era stokkata la forza-lavoro di Mirafiori e del Lingotto, e dove ora si accumulano i detriti di una composizione sociale in disfacimento, dovrebbero essere più consapevoli, e “politicamente corretti”, delle loro élites?
Torino, da anni, si compiace della bellezza ritrovata del proprio centro, brillante e patinato. Del fascino delle proprie piazze-vetrine e delle dimore sabaude restaurate. Oggi scopriamo che quel centro geometrico e luccicante è un po’ come il volto intatto ed eternamente giovane di Dorian Gray – l’inquietante personaggio di Oscar Wilde -, mentre il suo ritratto, invecchiato e sfregiato, lo si può scorgere qua, nel quartiere di periferia dove si è scaricata tutta la carica di degrado e di bruttura accumulata in questi anni: lo sfarinamento della sua industria, l’erosione dei diritti sociali, l’impoverimento e la precarizzazione del lavoro, la crisi della socialità  e della solidarietà . Tra il vuoto di diritti e di potere che si è aperto a Mirafiori, e questo pieno di rancore e di passioni funeste che si è condensato nel suo antico dormitorio, corre il filo nero di un’infausta profezia.
Auguriamoci che Torino non sia, ancora una volta, “laboratorio”. Che non anticipi i segni di un’involuzione antropologica mortale. Il lungo piano inclinato della crisi, via via più ripido, lascia intravvedere inediti scenari weimariani, minacce fino a ieri impensabili. Il conflitto sociale, rimosso ed esorcizzato al vertice, rischia di ricomparire al fondo della piramide sociale, con il volto sfregiato della “folla criminale”, del linciaggio e della ricerca feroce del capro espiatorio. Se la caduta dovesse accelerare, e la situazione precipitare, allora, con molta probabilità , il pogrom di Torino non resterebbe un fatto isolato.


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