L’ad minaccia il trasloco delle fabbriche per estendere il modello Pomigliano

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È vero, Sergio Marchionne non ha pronunciato la fatidica frase: «Possiamo lasciare l’Italia». Ha detto tutto il resto. Che l’Italia è un Paese dove la Fiat «subisce la tirannia di una minoranza». Che, ovviamente, quella minoranza sono gli 11 mila metalmeccanici iscritti alla Cgil impegnati a tenere in scacco la multinazionale torinese. Che dunque la sopravvivenza della Fiat «non può essere rimessa in discussione» e alla domanda del cronista «Dunque potreste lasciare l’Italia?» risponde che «la Fiat è una multinazionale che vende auto in tutto il mondo».
L’ad del Lingotto dice queste cose parlando a Washington dove si saranno fatti l’idea che Maurizio Landini è uno dei pivot della politica e dell’economia italiane. Dice queste cose mentre i dati del mercato forniscono una fotografia a due facce: sul lato A il grande successo della Chrysler in America, sul lato B la drammatica situazione delle vendite in Italia dove il mercato cala del 10 per cento e la Fiat rimane sotto la quota del 30 per cento. Di fronte a questi dati la tentazione della fuga dalla Penisola è forte ma hanno ragione coloro che anche ieri ritenevano poco probabile una ritirata del Lingotto dal mercato domestico. Marchionne gioca con l’ormai consueta ruvidezza la partita italiana. Fa capire che potrebbe andarsene solo perché da lunedì inizierà  una trattativa serrata per estendere il modello sindacale di Pomigliano a tutti gli 80 mila dipendenti italiani. E ripete in grande lo schema già  sperimentato con successo in Campania, a Mirafiori e alla ex Bertone di Grugliasco: l’alternativa all’estensione del modello Pomigliano a tutto il gruppo è la sospensione del programma di investimenti. La giustificazione di quello che la Fiom chiama semplicemente «ricatto» (provocando il risentimento dei manager del Lingotto) sarebbe nella «tirannia della minoranza» esercitata dalla Cgil nelle fabbriche italiane.
In realtà  la Fiom, pur rappresentando il 12 per cento dei suoi dipendenti, è pur sempre il maggiore sindacato nelle aziende di Marchionne. E, se proprio si vuole seguire la logica dei numeri, l’estensione del sistema Pomigliano a tutto il gruppo dovrebbe, in teoria, essere sottoposta a referendum dei lavoratori interessati, com’è finora accaduto e come, quasi certamente, non accadrà . Nel momento in cui sarebbe necessaria la massima coesione nazionale si apre un nuovo fronte ideologico alla Fiat ed è del tutto evidente che il governo non intende osservare indifferente lo svolgersi dello scontro. Per questo Marchionne ammonisce Monti a non intervenire: «Ha un mondo di cose da fare, che cosa c’entra la Fiat?». Un appello a rimanere fuori dalla mischia che l’ad del Lingotto non aveva lanciato in estate a Sacconi, quando appoggiò gli accordi di Pomigliano con l’articolo 8 della manovra.
In ogni caso dal primo gennaio prossimo, con l’estromissione dei delegati Fiom dai consigli di fabbrica di tutto il gruppo Fiat, anche l’alibi di Maurizio Landini verrà  meno. I consigli di fabbrica saranno formati da due rappresentanti per ogni sigla sindacale firmataria degli accordi di Pomigliano, indipendentemente dalla loro rappresentatività . Questo avrà  come conseguenza che Fim e Uilm saranno in minoranza rispetto all’asse formato dai sindacati non confederali (Fismic, Ugl, quadri). Ma sarà  poco credibile, a quel punto, addossare la responsabilità  delle difficoltà  a Bonanni.
Il nodo reale continua ad essere quello del mercato. E con il passare dei mesi sarà  sempre più difficile convincere gli investitori che la perdita di quote in Europa è colpa dei sindacati. Così come sarà  sempre più difficile convincere i lavoratori italiani che gli investimenti ritardano a causa di un sistema di relazioni industriali vecchio e superato. Uno dei manager che hanno guidato la Fiat negli anni scorsi diceva con sarcasmo qualche giorno fa: «Marchionne ha ragione. Ai miei tempi la Fiom non c’era… e per questo abbiamo firmato l’accordo di Melfi, abbiamo ristrutturato l’Alfa Romeo. Eh, altra storia».


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